venerdì 20 gennaio 2012
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Il calcio, dopo la rivoluzione. La Coppa d’Africa, lo specchio in cui riflettersi. Almeno parzialmente, perché manca qualche pezzo. Non ci sono il Camerun e la Nigeria, e con i forfait di Boateng ed Essien nel Ghana, sembra una Coppa povera di stelle quella che comincia domani. Ma tra le pieghe di un torneo sempre affascinante, i grandi club d’Europa guardano a Gabon e Guinea Equatoriale - i due paesi ospitanti - con grande curiosità.Non sono più i Drogba o i Kalou, o ancora quel Keita trascinatore del Mali e jolly del Barcellona delle meraviglie a dover esser scoperti. Ma attaccanti come Moussa Sow, capocannoniere lo scorso anno in Francia, o portieri come Emanuel, che sono già sui taccuini degli osservatori internazionali.Mancherà soprattutto l’Egitto, campione in carica, il paese della rivoluzione a metà. E l’Algeria, uno spicchio del Maghreb del cambiamento. Ci sono altri, che si sono presi un pizzico di libertà e ancora aspettano di capire dove li condurrà. Libia, Tunisia, Marocco, Sudan. Molto è cambiato, altro dovrà mutare. Pure il calcio, per molti versi. Il calcio che ha sperimentato su di sé la rivoluzione, e che spesso della rivolta è stato protagonista. Il calcio che s’è fermato, salvo scendere in piazza. E che poi è ripartito, con rinnovato vigore. Il calcio che ha cambiato bandiera, come in Libia. Non solo bandiera (è tornata quella antica, dei tempi precedenti al regime di Gheddafi), ma pure l’inno nazionale. Il paese strappato dalle mani di Muammar Gheddafi, il calcio da quelle del figlio Saadi, che ne aveva fatto il suo regno, dettando legge, combinando partite, decidendo retrocessioni a tavolino (dei nemici dell’Al Ahli, la squadra di Bengasi). Rivolta sanguinosa, quella libica. Con tanti calciatori tra i protagonisti, dalla parte dei ribelli, come il portiere e altri tre nazionali (mentre il capitano è rimasto sempre al fianco del dittatore), insieme ad altri 12 giocatori di club, che abbandonarono le forze governative per passare coi rivoltosi. E poi, il ritorno in campo, a tagliare un importante traguardo, l’approdo alla Coppa d’Africa. Per la prima volta qualificandosi sul campo e non come paese organizzatore. A fare il ct non è arrivato Claudio Gentile, ma è rimasto il brasiliano Marco Paqueta, tornato dopo essere fuggito all’inizio della rivolta. Ora il giocatore-simbolo della Libia si chiama Walid El Khatroushi, tornato al calcio dopo mesi trascorsi a combattere in prima linea nelle file degli oppositori al regime di Gheddafi. Mentre non ci sono più le stelle Ali Rhouma, Mohamed Zaabia e Tarek El Tayab, esclusi per essersi apertamente schierati a favore del leader deposto.Storia simile quella della Tunisia, il posto da cui il fuoco s’è propagato. Ben Ali aveva tiranneggiato, per 23 lunghi anni. Sul paese intero, così come sul calcio. Non si muoveva foglia che il dittatore e il governo non volesse. La federazione, cosa loro (nessuna elezione presidenziale democratica), soprattutto durante il regno del controverso presidente Ali Hafsi. Tutt’altra cosa, dopo la rivolta. Se il Club Africain, uno dei maggiori del paese, è diventato il primo ad eleggere in maniera democratica il suo presidente il merito è della piazza che ha scacciato il tiranno. Voce alta, quella dei rivoltosi, spesso levatasi dagli spalti degli stadi: esemplare la fuga sotto il peso degli insulti di Chiboub, figlio di Ben Ali, durante la finale di Coppa nazionale.E così in Algeria o in Marocco, dove il vento della protesta (che ha portato a riforme in senso democratico) ben presto dalle strade e dalla piazze s’è trasferito negli stadi. Com’è accaduto in Egitto, del resto. Ultras in piazza Tahrir, nemici uniti nella lotta: i tifosi dell’Al Ahly e dello Zamalek, fieri rivali di sanguinosi derby della capitale, fianco a fianco per sbattere in faccia le porte del paese a Hosni Mubarak. All’esordio assoluto c’è il Niger, rappresentativa del settimo paese più povero del mondo che non aveva neanche i soldi per pagarsi la trasferta: in soccorso della Nazionale è arrivato il governo con la decisione di istituire una tassa su tutte le chiamate di telefonia mobile. Trovati in questo modo i soldi, ora il Niger punta sulle giocate di Moussa Maazou, emigrato nel campionato belga dopo non aver lasciato traccia di sé in Francia, a Monaco e Bordeaux.Il calcio, dopo la rivoluzione. Vincente, per molti. Mesto, per qualcuno. L’Egitto vinceva sempre, sotto la guida di Hassan Shehahta, il ct fedele a Mubarak: tre successi di fila in Coppa d’Africa. Stavolta, neppure c’è arrivato. Altri, invece, ci saranno. Perché dopo le rivolte hanno preso a vincere, come in una naturale reazione al precedente oscurantismo. Risultati migliori, dopo il cambiamento. Qualcuno ha fatto i calcoli e i numeri non tradiscono mai. L’Egitto è l’eccezione che conferma la regola. Quella è rappresentata da Tunisia, Libia, Sudan, Marocco e Algeria: dalla miccia tunisina in poi, hanno disputato 53 partite, vincendone il 45%, realizzando in totale 87 reti (1,64 a partita). Un anno prima, nello stesso periodo, 60 gare disputate, solo il 33% delle quali vinte, con 79 gol realizzati (1,32 a partita). Benedette rivolte, anche per il calcio.
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