«Per i vent’anni di L’Infinitamente Piccolo, che ho portato sul palcoscenico per 350 volte, si farà finalmente una versione senza di me», dice Angelo Branduardi: «Non sarà né un musical né una commedia musicale ma la semplice “Lauda”, la forma teatrale inventata da san Francesco. I francescani mi hanno interpellato e io ho subito detto il mio sì. Credo ci si stia già lavorando. Mi farebbe molto piacere, perché quel disco ispirato agli scritti di san Francesco è stata la cosa più bella che abbia mai composto. Mi immagino un semplice assito, come usava fare il santo, che si esibiva sulla pubblica piazza come un menestrello. Tutto quello che lui ha scritto, e purtroppo è rimasto molto poco, nasceva per essere cantato. Lui non parlava, cantava». Quello spettacolo, nato nel 2000 per il Giubileo, ha percorso attraverso centinaia di concerti le infinite Vie del Pellegrinaggio sulla Via Francigena e negli spazi teatrali d’Italia e d’Europa, per non esaurire mai la sua portata meta-musicale e spirituale. Una voce fuori dal coro, come era quella del Poverello di Assisi e come è sempre stata, del resto, quella del menestrello Branduardi con i suoi viaggi nel tempo e nei suoni del mondo. Ora con le sue musiche sospese tra sonorità medievali e rinascimentali e folkpop moderno sarà ospite dello Sponz Fest 2018 di Vinicio Capossela (21-26 agosto) con l’intrigante sottotitolo: “Salvagg’ - Salvataggi dalla mansuetudine”.
«Una peste percorre la società contemporanea, l’ammansimento. Isolati e connessi nell’individualismo collettivo delegato alla Rete». È il suggestivo Sos che col suo festival lancia Capossela e che lei ha raccolto…
«Sì, la Rete può essere molto pericolosa, circola un fiume di cose belle e brutte: è licenza, non democrazia come si favoleggiava. A noi musicisti sembrava poi promettere la possibilità di fare musica liberi da condizionamenti, ma vediamo purtroppo con che pessimi risultati. Manca quella che io chiamo la polvere dietro alla schiena, il cammino che ognuno deve fare per arrivare a qualcosa. E con la Rete il cammino non c’è. Io con il mio stile non riuscirei nemmeno a iniziare in una situazione di mercato musicale come quella attuale. Se fossi un ventenne oggi non combinerei nulla».
Perché, cosa manca oggi in particolare?
«Quando io e i miei colleghi dei primi anni Settanta iniziammo c’era nella discografia una specie di regola d’oro: al primo disco si perdevano soldi, col secondo si andava più o meno in pari e al terzo si cominciava a guadagnare. Il tutto diluito almeno in cinque anni di tempo e con una piccola paghetta che ci consentiva di non dover andare a lavorare all’ortomercato a scaricare la frutta per poter sopravvivere. Adesso se non vendi subito prendi un calcio nel sedere. Se poi ti va bene di vincere un talent show hai i tuoi sei mesi di illusione finché non arriva il prossimo vincitore. Invece ci vogliono tempo e pazienza, il talento va coltivato. Questo è l’unico cammino che può portare da qualche parte».
Camminando camminando è poi un suo album, ma soprattutto il suo ideale…
«Bisogna camminare nella vita. Nella giusta direzione, però. Oggi a illudere, soprattutto i nativi digitali, è il fatto che ormai basta pigiare un tasto e suona di tutto. Invece in quell’immagine reale della polvere sulla schiena c’è anche lo studio. Non è necessario un diploma in composizione per scrivere belle canzoni, e i Beatles ce lo stanno a dimostrare. Però la canzone ha bisogno in sé, nella sua essenza, di una visione. Pertanto bisogna imparare a costruire, a pensare, e meditare. Vano credere che si possa fare musica assemblando meccanicamente».
Cosa proporrà il 22 agosto nella tana del lupo d’Irpinia Capossela?
«Con me sul palco al posto del mio storico sodale Maurizio Fabrizio ci sarà stavolta Fabio Valdemarin, che suona un sacco di strumenti. Potremo contare su pianoforte, organo, tastiere e tromba oltre che sulle mie chitarre e sul violino. Rivisiteremo molti miei storici pezzi, famosi e meno noti. Poi ci sarà una parte più medievale grazie all’ensemble di musica antica di Giovannangelo De Gennaro. Tutto ciò sullo sfondo del vecchio castello di Calitri, che si illuminerà alla luce del tramonto».
Note per intenditori… E i giovani?
«Ci saranno, eccome. Del resto io sono un provocatore, anche se non sembra. Ho sempre fatto il contrario di quello che ci si aspettava. Io non vengo da una scuola e non ho creato una scuola. La mia musica è come l’aglio: o piace o fa schifo. I musicisti che van bene a tutti non sono veri artisti. Bisogna sempre dividere il pubblico. Non puoi essere un uomo per tutte le stagioni. È giusto così».
Lei ha spesso cambiato anche all’insegna di una certa ricerca filologica musicale.
«Sì, ma non nella sostanza. Semmai quando ero giovane ero più sintetico, usavo frasi molto pregne e pesanti dal punto di vista musicale e letterario. Con mia moglie Luisa Zappa, nei testi, si riusciva a dire quasi tutto nel giro di quattro battute. Una forma di sintesi che col tempo, e con il fatto di sapere che non so, si è andata trasformando in maggiore elaborazione. Scrivo ragionando e lavorando, non accetto il risultato così come arriva. L’essenzialità di una volta assume ora una forma più complessa. Ma per arrivare a questo ho dovuto anche commettere degli errori di percorso. Per i quali sono stato perdonato. Oggi chi ti perdona? Nessuno ti aspetta più nel tuo percorso artistico».
Torniamo a san Francesco. Non si è mai sentito un po’ ingabbiato dopo aver messo in musica il Cantico delle Creature, brani dei suoi scritti e alcuni episodi della sua vita tratti dalle Fonti francescane?
«No, perché Francesco era poeta, amava cantare ed era un uomo, diventato Santo. La sua visione era grande, universale. Ho degli amici francescani che fanno addirittura meditazione alla orientale. È stato uno di loro a propormi il lavoro su san Francesco. Il problema a volte è la paura di allargare le esperienze. Mi viene in mente papa Giovanni Paolo II con il suo appello “non abbiate paura”. Per me suonare e scrivere è aprire la porta sullo Sconosciuto ».
L’arte e la meditazione in musica anche come viatico alla trascendenza?
«Poi però bisogna essere capaci di tornare indietro, chiudere questa porta misteriosa e accettare la dimensione terrena con i suoi limiti. Se no vaghi e diventa un problema distinguere la realtà dalla fantasia, rischi di diventare matto. Bisogna sapere che tutto ciò che stiamo percependo può essere il futuro ma potrebbe non esserlo e comunque è una visione. Come lo sono, in qualche misura, certe belle canzoni. Ma attenzione, non sono la realtà. Non ci puoi sguazzare dentro perché ne va della salute. Ci sono tanti casi di musicisti straordinari che non sono mai tornati di qua».
E il rap, che lei non disdegna, da che parte ci porterà?
«Il rap sarebbe anche una bella forma artistica. Apprezzo Caparezza, Fabri Fibra, mi piace Eminem che trovo un grande musicista indipendentemente da quello che dice o come si comporta. Sono fatti suoi, di cui renderà conto. Il problema è che da genere è diventato una moda e adesso c’è una schiera di rapper che non finisce più. Vedo un declino abbastanza vicino. Perché quando la fila si allunga poi cadono tutti assieme. Nella moltitudine c’è già il germe della fine».