A Osmace e Brežani non c’era più nessuno. I due villaggi, non lontani da Srebrenica, in Bosnia, avevano assieme circa milleduecento abitanti, ma con la guerra del 1992-95 si svuotarono: molti furono uccisi, qualcuno riuscì a scappare. Era l’epoca della "pulizia etnica" e i bosniaci non avevano un’etnia comune, ma erano un insieme di diversi ceppi e religioni, per cui il conflitto si incrudelì al parossismo tra di loro. Oggi restano brandelli di edifici tempestati dai proiettili, campi minati, depositi di bare anonime, fosse comuni nascoste per occultare le prove dei massacri. E alcuni, ora adulti, allora bambini, che dall’inizio del nuovo millennio affrontano la nostalgia: il dolore del ritorno. E la fatica della ricostruzione.Se ne parla oggi grazie al fatto che ai due villaggi viene attribuito il Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino, la cui giuria ha espresso questa motivazione: «Siamo sull’altopiano sopra Srebrenica, scavato da corsi d’acqua e ondulato come un gheriglio di noce, stretto dentro i profondi canaloni di una grande ansa della Drina, un fiume cruciale della storia e della cultura europea, confine e insieme legame di civilizzazioni che si sono confrontate nella geografia balcanica. Un territorio di fronte al quale è inevitabile interrogarsi sulla contraddizione tra la bellezza della natura e i segni onnipresenti di una guerra ancora leggibile. Osmace e Brežani compongono insieme uno dei tanti luoghi della Bosnia dai quali due decenni or sono è stata strappata la vita di una comunità, devastata la sua convivenza multiculturale di lunga durata, dispersi i sopravvissuti. Tra questi ultimi, e ciò ne fa un luogo di testimonianza e di esperienza altamente significative, un piccolo nucleo di famiglie di agricoltori e allevatori cerca da qualche anno di trovare la strada del ritorno e la trama della memoria, di costruire nuove relazioni tra persone, di rinnovare il legame necessario tra spazio da occupare, terra da curare, casa da ricostruire, condizione umana da conquistare».Sono figli di chi quella guerra ha sepolto. Non badano più alle differenze. Serbi e musulmani sembrano tenersi per mano mentre cercano di dissodare un terreno rimasto per troppo tempo incolto, pur disponendo solo di un vomere vecchio e corto. Hanno un progetto: si chiama
Seminando il ritorno e mira a rimettere in movimento il ciclo produttivo che fu spazzato via dai cecchini. C’era il grano saraceno, quello che cresce bene nelle valli montane: siamo a circa mille metri di altezza. Da un paio d’anni cercano di ripristinarne la coltura. Non solo le erbe selvatiche hanno invaso i campi, non solo non ci sono più gli strumenti e gli edifici sono ruderi, ma la frattura bellica ha privato i giovani del sapere dei padri: qui il
gap generazionale è consistito in un azzeramento di tutta una cultura.S’è messa in moto allora un’altra logica: quella della solidarietà. Quella che è sempre ostracizzata dove incalza trionfante la logica della competizione, ma che qui, dove si conosce il sapore acre della sconfitta che accomuna tutte le vittime della guerra a prescindere dai suoi esiti, la solidarietà è l’unica via possibile per riprendere la vita.Così, dopo l’esperienza di convivenza compiuta grazie all’associazione Tutslanska Amica, fondata dalla psichiatra Irfanka Pašagic per assistere le donne e i bambini vittime della pulizia etnica, alcuni hanno dato vita al gruppo informale
Adopt Sebrenica per ragionare sul loro futuro e sulle prospettive di quella regione. E, conosciuto il pregio del dialogo, alcune famiglie costituite da persone originarie di Osmace hanno deciso di tornarvi. Per rimettere in moto l’agricoltura hanno trovato anche il sostegno di diversi gruppi italiani: da Padova, Agronomi Senza Frontiere, Associazione di Cooperazione e Solidarietà, la Cooperativa agricola El Tamiso; da Bolzano la Fondazione Alexander Langer; il Centro Pace del Comune di Venezia; la Tavola Valdese. L’aiuto che ricevono consiste soprattutto nella formazione tecnica ma anche nella fornitura di sementi o di carburanti.Stanno restaurando alcuni edifici. Case, ma anche la scuola che un tempo aveva 500 allievi provenienti da tutti i villaggi vicini e ora ne conta nove. Nei paesi dove qua e là tornano a fumare i comignoli, tra le case non ci sono steccati: lo spazio di viottoli e orti è comune. Era così prima della guerra, è tornato a essere così ora che si ricostruisce la pace. Ma senza chiudere gli occhi sugli anni oscuri in cui si scatenò l’inferno, anzi, scavandovi alla ricerca delle vite e delle identità affossate. Nel 2011
Adopt Srebrenica, con la collaborazione dell’Archivio Storico di Bolzano, ha promosso un centro di documentazione sulle storie individuali e collettive della regione. Il lavoro sarà lungo: basti pensare che il villaggio di Potocari, vicino a Srebrenica, ospita un Memoriale dove ancora l’anno scorso sono stati sepolti i resti di 409 persone uccise nel conflitto, il che porta a 6.066 il numero di morti che vi sono ospitati. E nel centro di Tuzla, preposto alla raccolta dei resti umani, continua ad aumentare il numero di bare senza nome.A Osmace e Brežani i giovani Muhamed Avidic e Velibor Rankic lavorano assieme nel progetto
Seminando il ritorno: i loro stessi nomi rivelano le loro diversità. A loro sarà consegnato il Premio Carlo Scarpa per il Giardino, perché solo dalla collaborazione nasce la cura, così delle persone come del territorio. Sta scritto nella bibbia: «il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse». Non perché lo distruggesse.