Anche la Germania è ovviamente coinvolta nel ricordo dei cent’anni del conflitto che ha sconvolto l’Europa. E a guidare il dibattito in questo momento, per il suo successo di critica e nelle librerie, è
La Grande guerra: il mondo 1914-1918 di
Herfried Münkler, storico delle idee e politologo all’Università Humboldt di Berlino.
Professor Münkler, lei ha scritto che da nessuna guerra si può imparare come dalla Prima guerra mondiale: in che senso? «Se si vuole imparare dagli avvenimenti e dai loro sviluppi bisogna porsi delle domande. L’idea a lungo dominante per cui la prima guerra mondiale è stata un esito deterministico, ossia inevitabile, è stata un ostacolo alla comprensione, così come l’idea che solo la Germania guglielmina sia stata responsabile dell’esplosione del conflitto. Chiediamoci in che modo più probabilmente la costellazione degli Stati tedeschi nel 1914 ha fatto la guerra. Non ci furono accordi istituzionali per fermare l’ escalation del sospetto e della diffidenza, nessuna costrizione per iniziare delle trattative quando le tensioni si acuirono. Perché non si riuscì a cogliere l’approssimarsi della tragedia? Al Piano Schlieffen dei tedeschi va una grande responsabilità, ma anche alle intese fra russi e francesi, così come alla promessa di sostegno dei russi alle Serbia. Perché non si è riusciti a terminare politicamente la guerra nel tardo autunno del 1914? Qui ci imbattiamo nei meccanismi della conduzione di una guerra di coalizione, che impediscono a ogni singola parte di fare il primo passo per la pace. È come nel gioco dello shanghai: il primo che sussulta ha perso. Ma si possono osservare altri processi che si sono rivelati fatali. I tedeschi hanno enormemente imparato a livello di tattica militare durante la guerra, il che ha permesso loro di resistere a lungo allo strapotere avversario in uomini e mezzi. Ma il perfezionamento militare ha anche impedito di abbandonare il cammino che aveva portato al conflitto».
Nel suo ultimo libro sottolinea il ruolo degli intellettuali in quelle vicende: fu così cruciale? «Fu una guerra della borghesia, che in Germania si era ripromessa di raggiungere un ruolo di guida. In Francia l’aveva già ottenuto e doveva piuttosto dare prova di esserne all’altezza. Gli intellettuali che hanno accompagnato la guerra delle armi con quella della penna erano soprattutto di estrazione borghese e hanno contribuito enormemente a dare una giustificazione agli eventi: la Germania era entrata in guerra senza fini politici chiari, per cui il suo coinvolgimento finì per assumere un senso sovra-politico, alla luce della storia o nei piani di Dio».
Oswald Spengler pubblicò “Il tramonto dell’Occidente” nel 1918. Quanto la Grande guerra ha segnato la cultura europea all’insegna di un pensiero debole e negativo? «Il XIX secolo era stato segnato dall’esperienza della crescita, politica ed economica. Si pensava che nel nuovo secolo la violenza non avrebbe avuto spazio. Auguste Comte, Herbert Spencer e la sinistra hegeliana descrivevano società in cui il lavoro aveva abolito la violenza come meccanismo di regolazione. La guerra ha distrutto questa visione ottimistica. L’uomo si è volto di nuovo alla violenza con il fascismo, il nazismo ma anche il bolscevismo, come movimenti politici fondati appunto sulla violenza. Spengler, la “scimmia intelligente di Nietzsche” come lo definì Thomas Mann, interpretò in quel frangente una duplice parte: di chi indicava uno scenario e di chi ne accelerava l’avvento».
La guerra ha coinvolto pesantemente anche il cattolicesimo e il protestantesimo: se il kaiser era il capo della Chiesa evangelica di Prussia, gli italiani si ritrovarono a combattere contro i loro “fratelli” cattolici austriaci… «Si può dire che nel 1914 siano naufragate tre Internazionali: quella socialista, che si era proposta come obiettivo di impedire la guerra, l’internazionale dell’alta aristocrazia – i governanti dei maggiori Paesi in guerra fra loro erano imparentati – e anche, se si vuole, l’internazionale del cattolicesimo: papa Benedetto XV con le sue iniziative di pace non riuscì a vincere lo scontro dei nazionalismi. I fattori di coesione tra le nazioni nel 1914 si sono rivelati più deboli delle forze divisive».
Prima e Seconda guerra mondiale sono stati due confitti separati o alla fine un’unica guerra in due tempi? «Certamente si possono vedere insieme, come se fosse stata un’altra Guerra dei Trent’anni nel cuore dell’Europa. Però in questo modo sfuggono le specifiche responsabilità politiche e tutto appare semplicemente come un grande bagno di violenza. Questa guerra è stata, come George Kennan ha detto, la catastrofe originaria del XX secolo, da cui sono discese le altre catastrofi: Mussolini, Hitler, certamente anche Lenin, soprattutto Stalin e quindi la seconda guerra mondiale. Bisogna capire la prima guerra se si vuole capire il ’900 e diventa chiaro che le sue ricadute durano fino ai giorni nostri. Pensiamo ai Balcani o allo spazio post-imperiale del Caucaso (e dell’Ucraina, per stare ai fatti di questi giorni), ma soprattutto alla disintegrazione dell’impero ottomano e all’irrisolto ordine politico del Medio Oriente. In altri termini, la Prima guerra mondiale è storia, ma si affaccia ancora sul presente».