La straordinarietà dell’opera risiede nella capacità di "inculturare" le Scritture nella tradizione india. «Abbiamo cercato di realizzare una "traduzione dinamica". Non ci siamo limitati a trasferire i termini da una lingua all’altra. Lo sforzo è stato quello di rendere l’autentico significato di una parola nella prospettiva linguistica e culturale tzeltal – spiega padre Maurer –. Le faccio un esempio: l’espressione di Gesù "pane di vita" significa poco per un indigeno. L’abbiamo dunque "inculturato" con: "Pane che dà la vita". O ancora, un tzeltal non direbbe mai che Dio "è ricco di misericordia", poiché "ricco" si riferisce solo al denaro. Nel tradurlo abbiamo scelto, dunque, "Dio è l’Essere la cui misericordia non ha misura"».Un simile lavoro è stato possibile grazie alla partecipazione attiva degli stessi tzeltal alla stesura dell’opera, in primis i "consulenti" Abelino Guzmán Jiménez e Gilberto Moreno Jiménez. «In realtà sono stati loro i traduttori. Noi ci siamo limitati ad accompagnarli», continua il religioso, arrivato in Chiapas per terminare la tesi di dottorato in Antropologia assegnatagli dall’Università di Parigi e mai ripartito. All’epoca, era il 1973, la traduzione della Bibbia era cominciata da qualche anno, sotto la guida dei gesuiti presenti nella remota regione fin dal 1958 e "costretti" a imparare lo tzeltal per annunciare il Vangelo ai nativi. Il missionario ha vissuto 9 anni insieme agli indios, studiandone lingua, tradizioni e mentalità, prima di essere reclutato nella squadra dei traduttori.Il progetto pionieristico, nel frattempo, procedeva con il forte sostegno della diocesi del Chiapas, grazie all’intuizione profetica dell’allora vescovo don Samuel Ruiz, e poi dal successore don Felipe Arizmendi. «Nel 1982 hanno affidato a Abelino Guzmán Jiménez e a me la traduzione del Nuovo Testamento e dei Salmi. La maggior difficoltà è stata quella di passare da un’ottica occidentale a una visione indigena, dove l’istruzione è apprendistato e la pena per un delitto è un risarcimento diretto del colpevole alla parte offesa. Per questo, la collaborazione di Abelino e dell’intera comunità tzeltal è stata fondamentale. Discutevamo serate intere su una parola. Dicevano: "Così non suona". E insieme trovavamo il termine giusto», narra il missionario.Che conclude: «Quest’esperienza mi ha fatto comprendere il significato della sfida missionaria. Glielo spiego con una metafora agricola: il sapore del peperone messicano cresciuto in Spagna "pizzica" in modo diverso. Evangelizzare vuol dire seminare la Parola in un popolo che vive in un habitat naturale e sociale. Noi missionari dobbiamo custodire quel seme perché cresca e faccia frutti, il cui gusto, però, sarà in armonia con quell’ambiente e quella cultura».
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