La metafora che Henri Bergson usò, l’8 marzo 1917 durante una conferenza tenuta all’America Academy a New York, per descrivere che cosa rappresentava ai suoi occhi la Grande Guerra ancora in corso è eloquente: «Questa guerra sarà stata come le grandi catastrofi geologiche, che durano qualche istante e stravolgono per sempre la faccia della terra».
Bouleversant, dice Bergson. Qualcosa che cambia profondamente le cose, niente sarà più come prima insomma.Bergson assunse una limpida posizione patriottica nel momento in cui scoppiò il conflitto; la sua fu una vera e propria assunzione di impegno politico e pratico per sostenere la nazione, la Francia, in un conflitto che allungava le sue radici molto indietro, al 1870, con la sconfitta francese nella guerra franco-prussiana. Sconfitta, con la perdita dell’Alsazia e della Lorena, che lasciò un segno indelebile. Eppure Francia e Germania, all’alba del XX secolo, ritrovavano nel dibattito filosofico un ponte per dialogare. A questo è dedicato un interessante contributo che la rivista “Esprit” presenta nel suo fascicolo di novembre dedicato appunto a
Le “moment 1914” en philosophie: France-Allemagne. Si tratta di un faccia a faccia tra Olivier Agard, storico del pensiero tedesco e docente alla Sorbona, e Fredéric Worms, filosofo dell’École Normale Superieure ed esperto del pensiero di Bergson.Ed è proprio sul filosofo dell’
Evoluzione creatrice e premio Nobel per la letteratura nel 1927, che il dibattito dei due studiosi si focalizza. Agard nota che tra il 1870 e il 1900 la filosofia tedesca ebbe scarso interesse per quella francese. Ma col giro di boa del secolo, mentre positivismo ed evoluzionismo segnavano una crisi della filosofia, si apre una nuova fase che in Kant trova il suo catalizzatore. Un filosofo anch’egli premio Nobel per la letteratura nel 1908, Rudolf Eucken, richiamava alla necessità di uscire dal formalismo per tornare a riflettere sull’essenza della realtà a partire dai concetti di “spirito” e “vita”. E qui Bergson entra in gioco. La sua visione anti-intellettualistica della realtà lo pone proprio in sintonia con questa filosofia. Naturalmente, spiega Agard, l’interesse per la “vita” nel pensiero tedesco dell’epoca ha «colorazioni molto differenti, più o meno biologiche». Tra i filosofi che si interessano a Bergson ci sono Georg Simmel e Max Scheler, che vi «trovano elementi per una critica della filosofia trascendentale, che ai loro occhi resta troppo formalista». Worms però sottolinea che in Francia il neokantismo s’incarna soprattutto nell’opera svolta dalla “Revue de métaphysique et de morale” (RMM) che mira a un ritorno alla filosofia pura, e coincide storicamente col ritorno alla Repubblica come sistema politico. Questa corrente si oppone, con accenti anche forti, all’altra tendenza che critica il positivismo in parallelo alla metafisica bergsoniana (in sospetto però di irrazionalismo). Bergson viene accostato a William James e al pensiero di Nietzsche, nella prospettiva di una critica della scienza in nome della vita e dello spirito; critica, dice Worms, «condotta a nome della metafisica intuizionista che riduce la scienza a una visione pragmatica». La polemica produce pamphlet come quelli di Georges Sorel e di Julien Benda, del quale Charles Péguy sui “Cahiers de la quinzaine” nel 1913 pubblica il saggio
Une philosophie pathétique dove critica Bergson dicendo che «construit des fantoches de paille auxquels ensuite il est aisé de mettre le feu»; e saggi filosofici come l’
Idéalisme contemporain di Léon Brunschvicg. Il fatto è, spiega Worms, che questa conflittualità che coinvolge Bergson porta a una distorsione del suo pensiero di cui lui stesso si fa in parte colpevole perché non risponde mai direttamente alle accuse lasciando che siano i suoi discepoli a farlo. Questo finisce per contrapporre la Francia di Cartesio, razionalista, a quella di Bergson, irrazionalista, e finisce per riflettersi nell’opposizione tra sinistra repubblicana e destra nazionalista. A cercare di ricucire lo strappo proverà Péguy scrivendo due note congiunte su Cartesio e Bergson, ma con scarso successo. I tedeschi sembravano refrattari a questo dibattito francese, per loro Nietzsche era una caricatura di Bergson: vitalista, scrittore, tutt’al più saggista, era rifiutato dagli accademici ed esaltato dalla cerchia letteraria di Stephan George e dall’avanguardia artistica, ricorda Agard. Eucker e Scheler, però, dialogano con Bergson. A dare visibilità a questo dibattito, dice Worms, saranno i Congressi mondiali di filosofia fondati nel 1900, che favoriscono la circolazione delle idee.La situazione si sblocca, più s’avvicina la data del 1914 e più Bergson viene tradotto e letto in Germania, come esempio di
Kulturkritik, e così la conflittualità tra scienza e spirito cresce più lì che in Francia, questo forse si deve – spiega Agard – «alla violenza e alla rapidità dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione tedesca». Su questa strada, Scheler identifica il capitalismo col regno del “risentimento”. Il pragmatismo – che in Francia assume talvolta un senso positivo – in Germania è accostato spesso all’utilitarismo, ovvero alla “filosofia del dollaro” (ma è vero che molti industriali tedeschi dopo la Grande Guerra svilupperanno
jont-venture con le industrie americane per assorbire nuovo
know how tecnico). Si gioca su questi argomenti anche la legitimazione della guerra, preceduta dalla diffusione di un sentimento nazionalista (cui talvolta la
Kulturkritik viene associata). L’Inghilterra è il grande nemico visto da alcuni filosofi tedeschi come regno della barbarie industriale. Si alimenta in questa polemica anche la distinzione fra
Kultur e
Zivilisation.Allo scoppio della guerra, Bergson non si tira indietro: fin dai primi giorni s’impegna nella propaganda patriottica. Romain Rolland lo addita addirittura come esempio di impegno nazionalista. Ma, nota Worms, non contento di spendersi personalmente, Bergson dà alla sua filosofia una sfumatura nazionalista conferendo alla guerra un’impronta metafisica che «assimila la Germania alla forza e la Francia al diritto», forza bruta contro forza dello spirito. Ma, aggiunge Worms, non fonda su queste categorie una nuova filosofia, si limita ad applicare dei concetti generali. In Germania le posizioni di Bergson vengono accolte con sconcerto. Nel dibattito francese si delineano due diverse Germanie, quella di Kant e Goethe e quella di Hegel e Bismarck. Se per Bergson dopo questa guerra niente sarà più come prima, allora questo spiega perché tornata la pace egli si sia opposto alla partecipazione della Germania alla commissione scientifica della Società delle Nazioni, di cui era presidente. È una scomunica che peserà a lungo sulla Germania e i suoi filosofi, esclusi, per esempio, dal Congresso internazionale che si tenne nel 1920 a Oxford. Ma – commenta Worms – se la Francia ha vinto la guerra, la Germania ha vinto la partita intellettuale: Husserl e Freud, così come Hegel e Heidegger si sono imposti sulla filosofia francese. Per quanto riguarda Bergson, è bene ricordare che, prendendo appunti per le sue conferenze del 1917 negli Stati Uniti, annoterà un principio espresso dal presidente americano dell’epoca Thomas Woodrow Wilson: «Il mondo ha il diritto d’essere l’arbitro di tutte le rotture della pace la cui origine si trovi nell’aggressione e nel disprezzo dei diritti dei popoli e delle nazioni». Sull’intervento americano sperava Bergson mentre nel febbraio 1917 mise piede negli States per le conferenze, ma anche per un’azione diplomatica: l’intervento americano arrivò come appoggio esterno il 2 aprile di quell’anno. Che la sua mediazione abbia in qualche modo pesato su quella decisione?