Quasi tutto quel che ha nutrito l’imponente fioritura iconografica di san Sebastiano lo si ricava dalla Passio composta a metà del V secolo da un agiografo romano. Guardia personale degli imperatori Diocleziano e Massimiano, Sebastiano portava assistenza ai cristiani incarcerati e dava sepoltura ai martiri; per questo fu condannato al supplizio delle frecce (i commilitoni lo legarono nudo a un palo e lo colpirono con tante frecce «da farlo sembrare un riccio», dice la Passio), ma sopravvisse; venne curato da sant’Irene, dopo di che si ripresentò pubblicamente agli imperatori proclamando la sua fede; questi non gradirono la sfida e lo fecero flagellare (o bastonare) a morte facendone gettare il corpo in una cloaca, dove miracolosamente lo rinvenne la matrona Lucina, che gli diede sepoltura sulla via Appia iuxta vestigia Apostolorum.
Il culto del martire si diffuse prestissimo, ma solo a partire dal VII secolo gli vennero attribuiti grandi prodigi, in particolare la protezione contro la peste. Forse perché si credeva che la malattia si propagasse nell’aria rapida come una freccia scagliata dall’ira di Dio. Forse, e più semplicemente, perché quando nel 680 scoppiò a Roma una pestilenza violentissima, come narra Paolo Diacono nella sua Historia Longobardorum, il popolo ricorse a Sebastiano e la peste cessò improvvisa. Il fatto si ripeté di lì a poco a Pavia, e la fama taumaturgica del santo spiccò il volo: la quantità di opere d’arte che lo rappresentano dice, oggi, quanto egli fosse venerato, e la peste temuta.
Ma tutto questo è come un lontano rumore di fondo rispetto a quanto avvenne in seguito. Nelle Memorie di un turista Stendhal riferisce infatti che, in una chiesa romana, una donna era svenuta per il turbamento procuratole da una pala d’altare raffigurante il santo.
Vero o no l’episodio narrato, è probabile che l’illustre viaggiatore che in Santa Croce aveva provato sulla sua pelle quella sindrome estatica da «eccesso di bellezza» ne scorgesse nella figura di Sebastiano come il paradigma perfetto: l’immagine di questo giovane bellissimo che subisce nudo il martirio (il passaggio dal primitivo modulo iconografico che lo ritraeva come uomo maturo, barbuto e talvolta persino canuto, a questo nuovo che verrà definitivamente ratificato nel ’500 dal Gilio e dal Paleotti, è probabilmente dovuto a una leggenda del XIII secolo secondo la quale il santo sarebbe apparso in sogno al vescovo di Laon «in aspetto d’efebo») innescò infatti negli artisti rinascimentali una vera e propria gara nella creazione di un nuovo canone che è come la riforma cristiana della bellezza classica incarnata da Apollo e Adone.
Sebastiano diventa il corpo santo che penetrato dal martirio ostenta una bellezza inviolabile: «bellezza e integrità», com’è appunto titolata la mostra in corso al Castello di Miradolo (catalogo Skira) a cura di Vittorio Sgarbi che, com’è di suo, gioca tutte le armi della seduzione per costruire quella che è, salvo la più circoscritta esposizione genovese del 2007 che metteva a confronto i diversi dipinti di Guido Reni dedicati al santo provenienti da musei di tutto il mondo, la prima «monografica» centrata su san Sebastiano. O, meglio, su quel che Sebastiano rappresenta: quell’inedito cortocircuito fra santità e bellezza che sedusse, appunto, l’arte tra Quattro e Seicento.
Una quarantina di opere, molti capolavori noti accanto ad attribuzioni piuttosto giovani, come la tela di Tiziano oggi nella Asher Edelman Collection, che nella sua concentrazione solitaria conclusa nella verità del paesaggio fa pensare sia stata inventata e dipinta prima dell’analoga immagine inserita nel gruppo dei santi della Madonna dei Frari della Pinacoteca Vaticana, che è più alta nella qualità, certamente, ma dove la figura del santo risulta curiosamente estraniata; o il singolare d’après del tutto inedito dalla tavola del Perugino oggi al Nationalmuseum di Stoccolma che Sgarbi assegna alla medesima mano (il che però, a colpo d’occhio, mi pare poco convincente), cui ammicca, nella medesima sala, nella medesima posa, attribuita ai primi del Novecento al medesimo Perugino, una superba tavola di Antonio Rimpatta, artista rarissimo (la sua prima opera documentata, la pala Mormile, è del 1501, e il suo catalogo completo annovera a oggi poco più di una ventina di pezzi), che elabora un’immagine più da Wunderkammer che da luogo di culto, con quel san Sebastiano appeso a un nido di corallo e montato su un panno di velluto nero che lo strappa allo spazio naturale del fondo, creando una straniante sovrapposizione di immagini, quella astratta e mentale del fondo scena (c’è anche l’alberello alla Perugino) e quella fisica del corpo del martire appuntato dalle frecce come un insetto raro nella scatola delle meraviglie.
I capolavori sono tanti, dal Genga degli Uffizi al Bigot della Pinacoteca Nazionale di Siena (eccolo qua, l’efebo della leggenda), al Berruguete della Galleria Nazionale delle Marche, al Guercino, fino al Ribera del Museo di San Martino di Napoli che è, avrebbe detto Stendhal, sindromaticamente insidiosissimo, e che vale da solo una visita. E tanto più intriganti i giochi dei rispecchiamenti (è una mostra che il pubblico se lo seleziona da sé, offerta a tutti ma non per tutti); giochi per lo più insinuati, come quello di cui si diceva, ma anche lanciati in sfida aperta dello sguardo, come nella proposta delle tre varianti firmate Jusepe de Ribera/copia/Luca Giordano, dove è lasciato allo spettatore distinguere come la luce progressivamente calante trasformi da una versione all’altra la composizione in mero ornamento del corpo santo, l’unico elemento che scatta nella messa a fuoco finale, quasi che bellezza e integrità fossero i nomi del contemptus mundi. Diremmo oggi, d’inaccessibile solitudine.
Pinerolo, Castello di Miradolo
San Sebastiano
Bellezza e integrità nell’arte tra Quattrocento e Seicento
Fino all’8 marzo 2105