Baudelaire ha inghiottito i suoi posteri: Freud e Artaud, e il Surrealismo: poeta d’un’Apocalisse sciancata, poiché altro non vediamo: «Il gregge dei mortali salta e gode, senza vedere / in un buco del soffitto la tromba dell’Angelo, / sinistra e spalancata come uno schioppo annerito» (ivi).C’è da domandarsi perché l’Ottocento italiano sia senza un Baudelaire, perché manchino i Fiori del Male: a quelle tumide fragranze si sporse, un po’ prima, il Manzoni del Fermo e Lucia e si ritrasse; impossibile dimorare in una colpa che non chiedesse espiazione e redenzione, che fosse sempre, e ancora, «insaziabile aspide» (Baudelaire). Leopardi ebbe il cosmo per misura, il suo Male era terso e nudo e universale, e non doveva «annegare il rancore e cullare l’indolenza» del Vin des chiffonniers o del Vin de l’assassin. Nessuno dei due, guardando in alto, vide «Cieli squarciati come pietre di greto» (Horreur sympathique). Vediamo, attraverso Baudelaire, il debole spegnersi della poesia italiana nel secondo Ottocento, incapace di guardare e di dire: «ogni giorno verso l’Inferno scendiamo di un passo, / senza orrore, attraverso tenebre nauseanti» (Baudelaire, Al Lettore). Mancò la Grazia e misero fu il Male, nessuno seppe inoltrarsi in sé «più profondamente che mai sia sceso il filo di piombo» (Tortures de l’opium).«Baudelaire è il poeta dell’interiorità dell’essere, della verità profonda, delle sofferenze dell’uomo nella natura. Il suo stile mira a descrivere l’interiorità, le aspirazioni, i deliri, i ricordi, in uno stile che sia congruo all’esteriorità». Questa osservazione di Benveniste, insigne linguista del XX secolo [Aleppo, 1902 - Parigi, 1976], risale a un dossier manoscritto di appunti inediti su Baudelaire, del 1967, ed è un contributo di acuta lucidità su ciò che differenzia poesia e linguaggio ordinario; e insieme un’interpretazione tra le più profonde che si possano oggi leggere sulla poesia di Baudelaire. Egli arriva subito all’essenziale: «La poesia è una lingua interiore alla lingua»; «a differenza del linguaggio ordinario, il linguaggio poetico fa vedere le cose, facendosi vedere esso stesso»; Baudelaire deve dunque esibire «una interiorità che si faccia vedere da sola», in un processo ove verità (interna) e realtà (esterna) vengano di necessità a coincidere: «Il poeta ci insegna la verità e ci disvela la realtà». Affinché le due istanze possano convergere, occorre ritrovare, nell’una e nell’altra, l’istante di eternità che brilla in esse: «Non è tanto un ritorno indietro, quanto un’eternità ritrovata nel sovvenire [gli esempi di siffatto ricordare sono essenziali]: "mère des souvenirs…"».
Perciò, chiosa Benveniste, «Baudelaire non riconosce che l’eternità, un’immobilità fuori del tempo, condizione della Bellezza, delle statue, della materia». Ed è così in L’Ideale: «O anche tu, grande Notte, figlia di Michelangelo, / che quieta snodi in una posa strana / le tue forme foggiate per le bocche dei Titani». Il fascino della lettura di Benveniste è proprio in questa coscienza della sfida ultima che Baudelaire pone al linguaggio: egli lo vuole capace d’interiorità e d’eternità, di visioni e di deliri, di tutto ciò che liberi solitudini: «La "solitudine profonda" è il retaggio di tutti gli "spiriti liberi". Ed è per questo che la morte soltanto consente il compimento integrale e giubilatorio dell’unione (cfr. La mort des Amants), ove una strofa tutta intera suggerisce ch’essi sono […] gemelli fusi nella morte in un bagliore unico». Così, biblicamente apocalittico, il Baudelaire della Morte dei Poveri: "[La Morte] è la gloria degli Dei, il granaio mistico, / la borsa del povero e la sua patria antica, / è il portico che s’apre sui Cieli sconosciuti!».