martedì 4 marzo 2014
Intervista al sacerdote ambrosiano amabilmente definito dal cardinale Martini «il patriarca della nostra diocesi». Il suo nome è anche nel «Giardino dei Giusti di tutto il mondo»
Monsignor Giovanni Barbareschi in un'immagine del 2014

Monsignor Giovanni Barbareschi in un'immagine del 2014

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Certo non avrebbe mai immaginato a 92 anni di età, compiuti solo l’11 febbraio 2014, che il suo nome sarebbe poco dopo comparso nel «Giardino dei Giusti di tutto il mondo» sulla collina del Monte Stella a Milano, assieme a Nelson Mandela e a Giovanni XXIII... Monsignor Giovanni Barbareschi, il sacerdote ambrosiano amabilmente definito dal cardinale Martini «il patriarca della nostra diocesi», è tra gli ultimi padri nobili viventi della Resistenza italiana (di cui è medaglia d’argento); a lui giovedì 6 marzo – Giornata europea dei Giusti – verranno appunto dedicati un cippo e un albero in un luogo simbolo del capoluogo lombardo, la «Montagnetta di San Siro», su proposta dell’associazione Gariwo e del Comune di Milano per «aver salvato tanti ebrei e antifascisti portandoli in Svizzera e procurando loro documenti falsi».

L’anziano sacerdote, nel suo appartamento collocato nel cuore di Milano, apprende la notizia con incredulità e commozione: «Proprio non me l’aspettavo. Il merito non è della mia persona, ma del mio gruppo; se non ci fosse stata quella rete di amici non so quante persone, antifascisti ed ebrei saremmo riusciti a salvare». Il gruppo è quello dell’Oscar (Organizzazione scout collocamento assistenza ricercati), che ha contributo a mettere in salvo duemila prigionieri. «Personalmente e tramite il mio gruppo – rivela con una punta d’orgoglio – mi prodigai per far espatriare clandestinamente duemila persone e a far falsificare ben tremila documenti».

Ma che cosa rappresenta oggi, a quasi 70 anni dalla fine della guerra, la figura di questo asciutto e carismatico prete per la memoria collettiva italiana? Attivista della resistenza, collaboratore del giornale clandestino Il Ribelle, quand’era ancora diacono don Barbareschi il 10 agosto 1944 venne inviato dal cardinale Schuster ad impartire la benedizione ai partigiani uccisi in piazzale Loreto. Fu ordinato sacerdote pochi giorni dopo, il 13 agosto 1944, da Schuster e celebrò la sua prima Messa il 15 agosto 1944; la notte stessa venne arrestato dalle Ss, mentre si stava preparando per accompagnare in Svizzera degli ebrei fuggitivi. Incarcerato a San Vittore, sarà sottoposto a durissimi interrogatori (da uno dei quali uscirà col braccio spezzato); ma anche in quel drammatico frangente non rivelerà il nome dei suoi compagni di lotta.

«Al raggio V ci eravamo accordati che, se durante l’interrogatorio uno non aveva parlato, non aveva rivelato nomi pericolosi, al ritorno in cella avrebbe alzato il braccio destro – rievoca commosso l’anziano sacerdote –. Suor Enrichetta Alfieri, l’"angelo di san Vittore" oggi beata, riaccompagnandomi in cella si era accorta che non potevo alzare il braccio perché era spezzato. Con prontezza di spirito alzò lei il suo braccio facendo un ampio segno della croce. I miei compagni capirono e dalle celle si alzò in risposta il rumore delle forchette battute contro le gavette. Per questo gesto di solidarietà, tutto il V raggio per punizione fu costretto a saltare la cena».

Di quei terribili ma anche intensi anni don Barbareschi estrae dal suo album dei ricordi alcune istantanee: «Mi colpì quanto eravamo consapevoli che lottavamo per la libertà e che la prima meta della nostra vita era diventare persone libere. Il mio rammarico è stato non essere riuscito a salvare tante persone finite poi nei campi di concentramento». Arrivato alla quarta età don Barbareschi sente su di sé non solo gli acciacchi ma anche la gioia della vecchiaia: «Non voglio tracciare bilanci. Ringrazio Dio dei doni ricevuti e delle tante cose avvenute nella mia esistenza. Mi tornano spesso in mente le parole di mia madre nel giorno della mia prima Messa: "Che non si formi in te mai il callo dell’abitudine"; quelle parole mi sono rimaste impresse per tutta la vita. Penso che la mia età permetta non solo più docilità, ma anche capacità di riflessione e di accoglienza verso gli altri. Si diventa più contemplativi».

L’anziano sacerdote avverte nell’elezione di papa Francesco «una ventata di novità e un respiro per tutta la Chiesa», sgombra finalmente da «ogni forma di clericalismo». È al suo amico e compagno di Resistenza don Carlo Gnocchi che riserva i ricordi più intimi: «Devo all’allora arcivescovo Giovanni Battista Montini se mi fu permesso di stare accanto al mio don Carlo fino al giorno della morte, il 28 febbraio 1956. Con lui abbiamo salvato tanti ebrei e la cosa che ancora mi rimane più impressa sono le sue ultime parole: "Come è bello morire con un prete amico vicino"».

Della folta galleria di personaggi ambrosiani conosciuti, a don Barbareschi – amante dei versi di Trilussa – rimangono soprattutto incisi i nomi e le figure di padre David Maria Turoldo («Riusciva a prenderti, catturarti con la forza delle sue poesie»), e di Carlo Maria Martini («Il cardinale che mi ha destinato a risolvere i casi difficili dei sacerdoti in crisi con la loro vocazione. Con lui ho vissuto l’esperienza dell’incontro di un padre che sapeva infondere autorità e responsabilità»).
Ma è a Schuster, il cardinale che lo salvò e si fece intermediario della sua scarcerazione da San Vittore, che don Giovanni riserva il suo ultimo pensiero, quello più personale, una «reliquia del cuore»: «Dopo la scarcerazione andai in arcivescovado per ringraziarlo, avevo solo 22 anni e mezzo, e subito mi riconobbe – rievoca commosso –. Questo carismatico monaco si inginocchiò, mi baciò le mani e mi disse: "Così nella Chiesa primitiva facevano i vescovi di fronte ai martiri". In quel gesto ho visto la trama e la parabola interiore della mia vita, ma anche del ministero di un vescovo che rappresentò il simbolo di riscatto per la città dilaniata dalla guerra».

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