Di Jacopo Ligozzi, la cui fama è stata per molto tempo, e ancora oggi in larga parte, determinata dalla straordinaria abilità di disegnatore di naturalia, ovvero fogli acquerellati di vegetali e animali che sono perfettamente in linea con lo sviluppo dell’iconografia scientifica, e in certo modo la precorrono e le danno un indirizzo rappresentativo che non si limita alla servile funzione illustrativa; ecco, di questo miracoloso disegnatore, vedendo la mostra allestita a Palazzo Pitti da Alessandro Cecchi, Lucilla Conigliello e Marzia Faietti (alcuni dei maggiori studiosi dell’artista), colpisce l’ampiezza dei registri pittorici, che vanno dal disegno di elementi decorativi, ai già evocati naturalia, alla pittura allegorica e storica, alla copiosa produzione di quadri religiosi.
Si può immaginare quale sconcerto possa aver creato negli studiosi l’attribuzione mezzo secolo fa dei dipinti double face che su un lato ritraggono un uomo o una donna, e sull’altro presentano una natura morta con al centro una testa umana in disfacimento, una vanitas insomma, che mostra il personaggio e come si ridurrà dopo la morte.
Tutto, attorno a quella repellente reliquia è immobile e stabile dentro una forma e una sostanza dura, che resiste al passare del tempo molto più di quanto non possa l’elemento umano che parla della morte stessa; la clessidra, i gioielli, il sacchetto di denari, il fiasco di vino, le carte da gioco… tutti simboli dei vizi e delle orgogliose tentazioni cui cede la natura umana quando è troppo sicura dei propri diritti e delle proprie forze; ma tutto passa, tutto torna polvere. Erano molto richieste nel primo Seicento queste vanitas, secondo un gusto collezionistico che partiva dalla necessità di purgare peccati che erano parte integrante della vita dei potenti e dei loro accoliti. Una visione macabra, il cui "lucido orrore" che le contrassegna, come notò Mina Bacci presentandoli in pubblico nel 1963, ricorda anche certe sensibilità lombarde (Cairo, per esempio) e nordiche.
Ligozzi veniva da una famiglia di ricamatori ed egli stesso si dedicò a disegnare abiti e i ricami sulle loro stoffe. Il gusto prebarocco del Ligozzi è sempre "impaginato", somma elementi iconografici, ma non gonfia, non deborda, e allo stesso tempo non sprofonda, si ferma sulla soglia, appunto, dell’allegoria (e nel memento mori sembra quasi che il pittore si diverta a raffigurare la morte cacciatrice e vendicatrice che miete vite dedite più al vizio che alla virtù).
Ligozzi capta le molteplici indicazioni di un tempo che si muove molto rapidamente verso atmosfere notturne. Poiché era uomo di religiosità forte, viene spontaneo pensare, come argomenta Anna Bisceglia nel catalogo della mostra, alle dottrine della Controriforma e a Ligozzi come un suo diligente interprete. Ma dobbiamo ricordare, e opportunamente la Bisceglia lo segnala, che insistono nella pittura, anche ad affresco (le storie francescane a Ognissanti, unica opera murale sopravvissuta del Ligozzi), memorie che legano nella sua pittura il manierismo al naturalismo, e lasciano aperta appunto la domanda sulle possibili frequentazioni del caravaggismo da parte del pittore.
Se Caravaggio disarciona san Paolo e lo getta a terra, in realtà lo emargina alla periferia del quadro dando il ruolo di protagonista al cavallo e alle sue natiche, Ligozzi nel quadro del Martirio di Santa Dorotea allocato a Pescia nella Chiesa di San Francesco, piazza in primo piano alla sinistra della tela l’ossuto e muscoloso didietro del cavallo proprio frontalmente, con la coda che sventaglia, mentre al centro della scena il carnefice aspetta l’ordine per decapitare la santa.
Il San Diego che risana gli infermi è, in effetti, un quadro caravaggesco ma soprattutto sensibile a certo tenebrismo lombardo, e lo sono in gran parte anche le quattro tele sulla Passione della Palatina, mentre un quadro come l’Adorazione dei Magi è ancora un’opera che tiene insieme elementi manieristi e nuovo linguaggio realistico. Il tema devozionale si apre al sentimento religioso, pietà ancora umana, nel Cristo degli Ulivi consolato dall’angelo, col calice all’estrema destra del quadro, da quale si erge una croce sottile. E questo mettersi in sintonia con il nuovo dettato cattolico sull’arte sacra lo rende certo più pittore della Controriforma di quanto non sia Caravaggio.
La categoria di "pittore universalissimo" che questa mostra mette in gioco riguarda anzitutto l’ampiezza dei registri tematici e gli ambiti iconografici, tanto che si potrebbe anche definire Ligozzi un pittore totale che sa spaziare dalla miniatura al grande quadro d’altare.
Ma, come nota la soprintendente Cristina Acidini, Ligozzi è ancora un artista del tardo Rinascimento, e come tale erede di quella mentalità classica e universale che rimanda alla memoria degli antichi; d’altra parte, Longhi ipotizzava per Caravaggio un ruolo da «portiere di notte del Rinascimento». Era come dire che in Caravaggio l’ideale umanistico tocca il suo limite di essenzialità, che non concede più nulla al "corredo" simbolico o allegorico dell’immagine. Persino le sue nature morte hanno un coefficiente di realismo dove l’elemento allegorico (che si può sempre trovare, come in ogni cosa intenzionata dall’osservatore) si stempera nel potenziale simbolico della luce e della sua energia plastica che rende le cose più reali del vero. Cioè verosimili. Ligozzi, che muore diciassette anni dopo Caravaggio, anche nelle sue straordinarie miniature naturali con il soggetto isolato al centro del foglio bianco, che sicuramente mettono a frutto una serie di precedenti che vanno da Giovannino de Grassi a Pisanello, a Leonardo, si spinge fin dentro l’iper realismo dell’immagine, ma resta nello stile un pittore del suo tempo, mentre Caravaggio diventa ogni giorno di più "inattuale", cioè veramente universale.
Firenze, Palazzo Pitti
Jacopo Ligozzi
Pittore universalissimo
Fino al 28 settembre