Quando pensiamo all’arte liturgica contemporanea, restiamo colpiti dalla frammentarietà delle proposte, come se non si fosse ancora oggi compiuta, a distanza di cinquant’anni dal Concilio Vaticano II, una seria riflessione sul tema dell’immagine. Non parlo di arte sacra - intendendo con questo termine quell’arte che, se veramente tale, è "porta" che si interroga sul mistero, come già scriveva papa Giovanni Paolo II nella sua splendida lettera agli artisti nel 1999 - ma di quelle immagini che devono essere collocate in un contesto liturgico, per la preghiera e per la celebrazione.Tuttavia, tra queste diverse espressioni figurative, esiste un comune denominatore: lo sguardo rivolto al passato. Carlo Levi diceva che il futuro ha un cuore antico. Parola splendide! Tuttavia, abbiamo la sensazione che non si tratti in questo caso di ispirazione, di rispetto della tradizione, ma di una immersione, di un tuffo in un mondo antico… Che si tratti di un’attenzione alla ricreazione di uno sfolgorante neo-bizantino, nell’adozione dei tratti stilizzati e del fondo oro, o di un asciutto neo-primitivismo medioevale, soprattutto di tradizione francescana, oppure di una brillante rivisitazione di modelli rinascimentali o di stilemi barocchi, rimodulati anche nei loro aspetti più sensuali ed ambigui, colpisce il modo con il quale l’immagine liturgica volta le spalle al tempo presente. In breve, il rimpianto per il passato appare il tratto dominante. Come interpretare questo ritorno al "neo"? Se guardiamo poi al modo con cui le immagini sono realizzate, non possiamo restare indifferenti di fronte alla scarsa qualità delle opere. D’altronde, chi oserebbe accettare il confronto con la genialità dei nostri maestri del Medioevo o del Rinascimento? E se osserviamo i lavori di tanti "artisti" consigliati, per esempio, da un critico tanto poco consapevole della contemporaneità quanto di grande successo mediatico come Vittorio Sgarbi, restiamo colpiti dalla mediocrità imbarazzante delle proposte. È sufficiente entrare nelle nostre chiese per rendercene conto. Tra i volti trasfigurati alla Guido Reni e i nuovi corpi eroici alla Michelangelo - senza parlare delle nuove "ascetiche" sublimazioni bizantine o delle angeliche ri-proposizioni alla giottesca-, l’"arte" liturgica - quando non si riduce al kitsch dei gadget devozionali - sembra muoversi in un territorio improbabile e anacronistico. Se la qualità artistica delle opere potrebbe apparire secondaria, in fondo per secoli la chiesa non ha mai parlato di arte, secondo la contemporanea accezione di
belle arti ma di immagine, di fronte a questo sguardo nostalgico non possiamo evitare di interrogarci sulle ragioni di questo rifiuto del presente. L’incapacità di guardare all’oggi e ai suoi linguaggi pone difficoltà. È forse un segno di una nostalgica fuga dai problemi del nostro tempo? Di fatto, se molta arte contemporanea riflette sulla dimensione dell’uomo nella sua vulnerabilità e nella sua difficoltà ad attraversare le contraddizioni del nostro tempo - senza considerare quelle inutili espressioni dissacratorie delle quali di tanto in tanto si occupano i giornali alla ricerca di scoop vergognosi forbiti di rane crocifisse o di santi lascivi -, l’immagine liturgica contemporanea appare generalmente rivolta alla rappresentazione di un passato glorioso, senza drammi, di un mondo in cui ogni conflitto è già stato dominato e annullato.Ogni aspetto problematico dell’esistenza appare cancellato nella dolcezza vacua e inconsistente dell’immagine. Che si tratti delle opere di un Oleg Supereco, di un Francesco Mori o di un Stefano di Stasio, di un Piero Casentini o di un Roberto Ferri, solo per citare alcuni autori tra una selva intricata ma ben individuabile nel mercato del sacro, ci troviamo sempre di fronte per la maggior parte a rappresentazioni di cartapesta, di plastica, siano esse sculture, pitture o affreschi, a pallide ombre che vorrebbero ri-evocare le testimonianze trionfali della nostra tradizione cristiana. Quando poi cerchiamo di comprendere come questa arte liturgica intende trasmettere i contenuti di fede, vale a dire gli aspetti più teologici, non possiamo che restare costernati nel constatare la superficialità delle immagini, che si presentano senza alcuna relazione con il mondo "ufficiale" dell’arte, pretendendo di farne a meno, considerandolo, con giudizi troppo perentori, inutile, morboso, provocatorio, difficile, sofisticato, elitario... E in parte è vero. Certo, un grande limite dell’arte contemporanea è quello di guardare all’uomo, senza riconoscere la possibilità di una redenzione, di un riscatto, per cui l’orizzonte della vita rischia di stagliarsi su di un fondo di non senso, di nulla, di indifferenza. Uno degli aspetti più imbarazzanti dell’immagine liturgica consiste invece nell’artificialità e nella banalità, nell’esaltazione tanto gloriosa quanto edulcorata di un mondo fatto di luci dorate e di eroi palestrati, di gesti retorici e di volti patetici. Irreali e insignificanti evocazioni della nostra tradizione spirituale. Universo completamente separato dalla vita reale. Si dice spesso che l’arte è a servizio della catechesi. Si presta così attenzione alla correttezza dell’iconografia o dei vari simboli rappresentati. Tuttavia, non è sufficiente. L’immagine sarebbe in questo modo ridotta a pura didascalia, spiegazione, descrizione. Si dimentica, infatti, che l’immagine è innanzitutto una testimonianza di fede che si esprime attraverso forme e colori.Quindi, dono dello Spirito. Certo, un’opera può essere corretta dal punto di vista iconografico. Tuttavia, è questa una condizione necessaria ma non sufficiente per realizzare una "bella" immagine liturgica. È la distanza che separa un’opera di Giotto o di Caravaggio da una contemporanea opera alla "giottesca" o alla "caravaggesca". Queste re-interpretazioni possono infatti benissimo risultare senza vita, prive di profondità, vuote, artificiose, immensamente lontane dalla "densità" teologica e spirituale delle loro fonti d’ispirazione. Queste nuove immagini dimenticano di assumere le sfide della propria epoca storica. Si presentano come autoreferenziali, inutili...Per annunciare il vangelo, occorre essere figli del proprio tempo. Bisogna vivere fino in fondo le contraddizioni e le lacerazioni dell’oggi, perché la buona notizia possa portare i suoi frutti. Cristo si è incarnato nel suo tempo, non certo vagheggiando un mitico tempo passato…! Se papa Francesco sta ripensando i diversi ambiti di evangelizzazione della Chiesa con straordinaria spregiudicatezza, comunicando con incredibile forza agli uomini e alle donne di oggi, il mondo dell’immagine appare invece ancora immutato, nella sua impassibile e fredda distanza. Nel suo imperturbabile sguardo rivolto alle sue spalle. Che l’arte possa essere di nuovo profetica, che sappia indicare nuovi orizzonti di senso, perché l’uomo di oggi possa essere in grado di accettare le sfide della contemporaneità e dei suoi linguaggi. Poche indicazioni si intravedono all’orizzonte. Alcune realizzazioni, come l’
Evangeliario della chiesa ambrosiana, la
Porta Speciosa dell’eremo di Camaldoli di Claudio Parmiggiani, quelli più recenti della cattedrale di Reggio Emilia, i lavori di pittura ambientale di Valentino Vago, le sperimentazioni di Bill Viola, per non parlare di alcuni splendidi casi europei come quello di Gerhard Richter alla Cattedrale di Colonia, sono troppo isolati per essere significativi. Anche le splendide opere di un Henri Matisse, di un Lucio Fontana o di un Giacomo Manzù sembrano ormai tanto lontane nel tempo quanto insuperate, nella loro ricerca di esprimere qualcosa di veramente nuovo nell’epoca in cui hanno vissuto, a cavallo del Concilio Vaticano II. Inoltre, non sempre le aperture sono oggi accolte. Anzi. Il passato appare vincente. Per cambiare, occorre coraggio e profonda fede che lo Spirito di Dio agisca nell’oggi. E grande umiltà.