Passare la Pasqua in Grecia, perché no? Ero al primo anno di università, ed avevo seguito lezioni per tutto l’inverno: archeologia classica, storia greca (il corso monografico era sulla dinastia dei Tolomei in Egitto, che imparai a memoria come una litania, fino all’ultima di loro, Cleopatra), e le divertenti, creative lezioni di archeologia cristiana con l’ineguagliabile Paolo Lino Zovatto, lo scopritore e scavatore di Concordia Sagittaria. Monsignor Zovatto, che andava sempre di corsa, spazzolando il pavimento della facoltà di lettere, il Liviano, con la sua tonaca stazzonata, non usava mai dare meno di ventotto, e così il suo corso era frequentatissimo. D’estate, col gran caldo, usava far gli esami in cantina, vicino alla caldaia spenta, su un tavolino traballante, e i trenta fioccavano... Allora i corsi erano annuali, con una bella pausa per Pasqua, sicché fu con grande entusiasmo che mi arruolai con un paio di amiche per il viaggio in Grecia che stava organizzando Franco Luxardo, un po’ più grande di noi, bello, simpatico e sportivo. La Grecia di allora, ancora non toccata dal turismo, si offriva ai pochi viaggiatori con quella ineguagliabile forma di ospitalità mediorientale, la xenía, che avrei imparato a conoscere bene negli anni successivi, quando andai dai miei parenti in Libano e in Siria.Partimmo da Brindisi su una navicella malandata dal pomposo nome di Eikaterini. Altissima di fiancate, oscillava che era una bellezza nel Canale d’Otranto e poi nel tragitto verso la Grecia. Nel buio, sentii il fragore di ondate violente, che mi spaventarono; le cabine erano anguste, le cuccette sovrapposte piuttosto inospitali e tutti avevano mal di mare. Allora mi alzai in fretta: preferivo passare la notte sul ponte, avviluppata in una vecchia coperta. «Molta umidità, ma niente nausea», proclamai la mattina dopo, mangiando una robusta colazione, e suscitando l’invidia dei miei compagni di stanza, pallidi e verdognoli, che masticavano con fatica un po’ di pane secco. Il passaggio del Canale di Corinto fu una meraviglia mai più ripetuta. La Eikaterini ancora ci entrava, quasi sfiorando le erte pareti del grande canyon, mentre le grandi navi passeggeri di oggi, quegli sgraziati grattacieli naviganti, non ce la fanno: sbarcano le masse di gente a Patrasso oppure circumnavigano il Peloponneso. Noi eravamo tutti sul ponte, guardando in alto la striscia di azzurro lontana, mentre la nave piano piano avanzava. E la mia mente satura di ricordi classici pensava agli dei dell’Olimpo, all’acropoli di Corinto, alle sacerdotesse della dea che si concedevano nelle stanze segrete del tempio: celebravano la prostituzione sacra, diceva il mio libro di storia con faticoso pudore. Sbucare sull’Egeo dei nostri anni di liceo, da Omero in poi, fra battaglie, triremi, guerre, Grandi Re bellicosi all’attacco e piccole città-Stato altrettanto bellicose in difesa, fu commovente ma anche – ci parve – un po’ deludente; e poi sbarcare al Pireo, in mezzo a un’enorme confusione, fra schiamazzi, grida, gente che ti tirava per il braccio per indicarti un albergo vicino, ripetendo come un mantra la frase «taliani greci mia razza mia fazza», ipocrita ricordo della nostra invasione della Grecia, fra reni non spezzate e percezione di una comune, patetica miseria di fronte alla perfetta macchina da guerra tedesca. Ma noi eravamo giovani e decisi a sfruttare l’occasione. Girammo per Atene visitando acropoli e musei, ma soprattutto annusando l’aria del paese. Il primo ad essersi scrollato di dosso il giogo ottomano, nel lontano 1829: «La battaglia di Navarino, Santorre di Santarosa e prima di tutto Lord Byron, morto di febbre nelle paludi di Missolungi», declamava invasato il professore di storia, e ci sembrava di vedere l’aristocratico zoppo e malandato, che agonizzava su un giaciglio di fortuna. Molto romantico, molto elegante, molto inglese. Ci suggerirono di non mangiare gelati, poteva essere pericoloso, ma era una Pasqua bassa, marzolina, e faceva ancora fresco, sicché ci dedicammo piuttosto ai chioschetti all’aperto che vendevano cosette fritte e piccoli bocconi di carne su microscopici spiedini, forse – a pensarci oggi – altrettanto pericolosi ma assai gustosi. Di sera erano illuminati da piccole lampade ad acetilene, come lucette nel buio. Ma intanto avanzava la Settimana Santa, perché quell’anno la Pasqua cattolica e quella ortodossa coincidevano. E il giovedì santo partimmo su una scassata corriera per il Peloponneso. Scendeva una neve rada, faceva freddo, e il riscaldamento non funzionava. Arrivammo gelati in Arcadia, in un paesino dove ci ospitò uno xenodochío tou ipnou ,un tipo di albergo particolare, l’“albergo del sonno”, dove si poteva soltanto dormire. Un piccolo lavandino ad ogni piano e un gabinetto nel cortile era tutto quello che, oltre al letto, veniva offerto ai viandanti. Eravamo pazzi di gioia: ci sembrava di emulare Lawrence d’Arabia o Savorgnan di Brazzà. Ci piazzammo nel cortile, all’ombra di un maestoso eucalipto, e ognuno raccontava una storia. Fu allora che per la prima volta udii me stessa parlare di mio nonno Yerwant e della sua famiglia armena, delle stragi del 1915, della Piccola Città laggiù in Anatolia, aldilà del mare; e comparvero sua madre Iskuhi dalle gote di pesca, suo fratello Sempad il farmacista decapitato e la bella Shushanig, che portò in salvo i bambini. Visitammo Olimpia e il tempio di Vasse, alto e isolato sulla collina. Eravamo soli, non ci sentivamo turisti ma viaggiatori incantati. Il giorno successivo era Sabato Santo. Arrivammo nella piazzetta di Nauplia. La breve neve di marzo era sparita, un sole glorioso tingeva d’oro le pietre, e noi sentivamo finalmente nelle ossa il calore della trionfante primavera greca. Ma quando le donne, che distribuivano lucide focacce di Pasqua con un uovo rosso incastonato sopra e rami di lillà fioriti, si accorsero di noi, diedero solennemente a ciascuno una focaccia e un fiore, dicendo: «Christos aniste, Cristo è risorto, ospite. Che Dio ti accompagni». E noi ci sedemmo a mangiare in pace.
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