venerdì 20 settembre 2024
Dal calcio alla pallavolo, dal basket al golf: dietro il successo dei cartoni animati nipponici lo spirito di rivalsa di un Paese uscito a pezzi dalla Seconda guerra mondiale
"Holly e Benji - Due fuoriclasse", oggi trasmesso con il nome originale del manga da cui è tratto, "Capitan Tsubasa"

"Holly e Benji - Due fuoriclasse", oggi trasmesso con il nome originale del manga da cui è tratto, "Capitan Tsubasa" - .

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Sono entrati nelle nostre case più di quarant’anni fa, e non sono più usciti. Personaggi nemmeno in carne e ossa, ma indelebili nella memoria, inseparabili dai ricordi d’infanzia così come un tempo ci tenevano incollati alla Tv. E quei nomi all’inizio così esotici sono diventati familiari: Holly, Mila, Benji, Shiro o Lotti hanno riempito i pomeriggi di generazioni di bambini. Una magia che si tramanda al punto che oggi non di rado i figli guardano gli stessi cartoni dei padri.

Dietro un successo senza confini c’è il Paese del Sol Levante che voleva risollevarsi dopo la Seconda guerra mondiale: il Giappone, la sua storia e i suoi valori, si specchiano nei “manga”, i famigerati fumetti da cui le serie televisive “anime” hanno avuto origine.
Tutte le storie più iconiche hanno un comune denominatore: lo sport come mezzo di riscatto e di affermazione dei canoni del bushido, il codice di condotta degli antichi samurai. Il campo di battaglia è diventato il campo di gioco come si evince dal saggio curioso e interessante di Valeria Arnaldi Campioni animati. Icone sportive nell’animazione (Ultra, pagine 200, euro 16,50).
Una lettura illuminante per conoscere il retroterra di questi piccoli grandi eroi televisivi le cui gesta hanno finito per ispirare non poche stelle attuali dello sport. Se sotto la lente finisce anche la produzione statunitense, da Walt Disney ad Hanna-Barbera, cattura il focus sui cartoon nipponici.

Tutto risale addirittura al 1928 quando viene collocata la nascita dello spokon (letteralmente “tenacia nello sport”), il genere animato che racconta di atleti pronti a sopportare allenamenti massacranti pur di riuscire. Ma è appunto nel secondo dopoguerra, in piena ricostruzione, l’arrivo della prima serie moderna, ispirata al baseball: Tommy la stella dei Giants del 1968. La scelta di puntare su uno sport di derivazione statunitense risponde alla logica nipponica di rivalersi nei confronti dell’Occidente anche dal punto di vista culturale: «Vinto dalla bomba atomica, ma mai domo, il Paese è pronto a “bombardare” gli Stati Uniti e tutto il mondo occidentale con le sue visioni, la sua storia, la sua filosofia». E così accanto alle serie dedicate alle tradizionali arti marziali ne compare una che riadatta un altro sport marcatamente a stelle e strisce: è L’Uomo Tigre del 1969 (in Italia dal 1982) che porta in primo piano addirittura il wrestling. Ancora una volta è la guerra l’antefatto della storia con il protagonista Naoto Date, rimasto solo dopo il conflitto e cresciuto in un orfanotrofio. Ring ricoperti di sangue, colpi violenti e crudeli, ma anche la consapevolezza della vita come lotta tra bene e male: il protagonista prenderà le distanze dall’associazione criminale che lo aveva fatto emergere e per questo si troverà a combattere con tanti sgherri. Lo farà per sé e per la sua libertà ma anche per il bene degli orfani a cui donerà i suoi compensi.

Devono fare i conti con vite difficili e traumi anche le giocatrici di Mimì e la nazionale di pallavolo: la protagonista Mimì si è appassionata a questo sport perché l’ha aiutata a superare la tubercolosi quando era piccola. La serie (trasmessa da noi nei primi anni ’80) rimette al centro la filosofia tutta nipponica del sacrificio, fatta di allenamenti durissimi perfino con le catene ai polsi. È ispirata però a una storia vera: l’oro della nazionale femminile giapponese di pallavolo alle Olimpiadi del 1964 che fece del volley un fenomeno di massa nel Paese. Le giocatrici furono ribattezzate “Streghe d’Oriente” per una vittoria frutto di dedizione e disciplina: quasi tutte venivano da una società pallavolistica di proprietà di una fabbrica tessile. Si sottoposero ad allenamenti lancinanti – fino a mezzanotte per sei giorni a settimana, dopo i turni di fabbrica – pur di imporsi. Il loro tecnico, Hirofumi Daimatsu si guadagnò l’epiteto di “coach demonio”: urla, lividi, ferite, palloni scagliati addosso alle atlete senza sosta, vessazioni di ogni tipo.

Una figura che compare sia in Mimì che nell’altro cartone di successo: Mila e Shiro – Due cuori nella pallavolo (del 1984). Nella versione italiana, Mila viene resa cugina di Mimì, anche se non era così nella storia originale. Qui i toni sono meno ossessivi ma il riferimento all’allenatore diabolico Daimatsu è evidente anche nel nome: “Daisaku Daimon”. E tuttavia le stesse vincitrici ai Giochi confessarono anni dopo di non provare rancore per quelle umiliazioni, ma anzi erano grate al coach per averle condotte a quel risultato sensazionale.

Del resto non meno duro è l’allenatore di Jenny la tennista (del 1973), sport arrivato in Giappone già alla fine dell’Ottocento grazie alle scuole missionarie. Sotto i riflettori dell’animazione nipponica finiscono un po’ tutte le discipline che si diffondono nel paese. Il copione filosofico è sempre uguale: la vittoria non si ottiene tanto per doti o talento naturale ma attraverso la volontà e il rigoroso allenamento. E difatti Gigi la trottola (1981) è tutt’altro che un gigante del basket - è alto meno di un metro - e Lotti, protagonista della serie Tutti in campo con Lotti, diventerà un campione del golf pur partendo da una condizione economica e familiare molto difficile (era orfano di padre). Sta forse anche qui il segreto della longevità dei cartoon giapponesi: aver trasmesso la convinzione che affermarsi nello sport sia un sogno alla portata di tutti, basta solo crederci.

Non è un caso se tante stelle del calcio hanno ammesso di aver tratto ispirazione dal cartone più famoso sul pallone Holly e Benji – Due fuoriclasse (il primo episodio in Italia il 19 luglio del 1986). Una serie che ancora oggi va a gonfie vele su Boing Tv (4,5 % share sui bambini 4-10 anni) con il nome originale del manga “Capitan Tsubasa”. Campi che si perdono all’infinito, palloni deformati da bolidi che bucano le reti, portieri che saltano sui pali e catapulte infernali. E poi certo gli stessi principi filosofici degli altri cartoni: spirito di sacrificio e perseveranza, lottare sempre senza arrendersi mai. Eppure se il viaggio dietro le quinte delle serie giapponesi ci spinge oggi a guardarle con occhi diversi, ciò che rimane immutato è quel pizzico di sogno e nostalgia che il tempo non riesce a cancellare.

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