Devo dire che riflettere sui possibili cantieri di pace della nostra società ha portato in me una nota di dolore, perché sento che questo è ancora più doloroso per una persona che viene dalla tradizione cristiana. Ho dovuto accettare ancora una volta di entrare dentro un grande dolore: essere cioè la pace parola centrale della tradizione ebraico-cristiana, e nello stesso tempo essere la pace la realtà più disattesa di tutta la storia del cristianesimo.Negli spazi culturali del mondo occidentale sul tema della pace si è fatto poco e la pace resta un argomento doloroso. Per la nostra tradizione cristiana la pace non è tanto e solo assenza di guerra. La pace è dunque sempre «fare la pace». La pace non è una situazione ma è un’azione. Se non continuiamo a «fare la pace» inevitabilmente diamo lo spazio al conflitto. L’inerzia di chi non è attivo fautore di pace fa di lui un provocatore del conflitto. Siamo stati molto inerti riguardo alla battaglia che bisogna combattere, la battaglia della pace. La spada va rimessa nel fodero perché la guerra cattiva non la si deve fare. Ma la guerra, quella buona, bisogna proprio farla.Io appartengo a una generazione che negli ultimi decenni si è fatta sedurre da una specie di pacifismo di colore un po’ orientale: «Io non faccio male a nessuno». Si è fatto uno scambio pericoloso dal punto di vista della cultura. Noi ebrei e cristiani siamo gente di azione. La nostra tradizione ebraico-cristiana è tutta azione. Nell’ebraismo e nel cristianesimo tutto è sempre azione. È importante che sia azione buona, azione dello Spirito, ma pur sempre azione.Noi non abbiamo più una cultura che sia adeguata né alle nostre capacità tecnologiche né ai grandi problemi della fame, dell’energia. Io sono vecchio e ricordo che trent’anni fa eravamo molto più ricchi di ora. Probabilmente lo eravamo meno come risorse, ma eravamo molto più ricchi perché eravamo più sicuri. Oggi viviamo una povertà più grande. Le nazioni come la Cina fanno esperienza della crescita. Noi no. Sentiamo tutto più incerto. Abbiamo paura per l’aria che respiriamo, per il futuro dei nostri figli. Siamo persone più povere. Questa povertà è delicatissima perché può portare alla disperazione e quindi alla violenza. Al contrario una povertà bene intesa, una povertà «evangelicamente visitata» è essenziale per il vero cammino della cultura di un popolo. Proprio da qui bisogna ricominciare: recuperare il concetto di «povertà» come dono.Ecco, bisogna ripartire dall’ipotesi di una «povertà visitata». In questo orizzonte bisogna ritrovare il mistero del dono fin da bambini: sei nato! La mamma e il papà non solo ti hanno generato. Ti hanno nutrito, ti hanno insegnato a parlare, a sorridere e ti hanno portato a una scuola. A scuola qualcuno si piega su di te e ti insegna a leggere e a scrivere: anche questo è un dono enorme che stai ricevendo nella tua povertà. Tutti noi credenti ma anche non credenti siamo stupiti per il capolavoro della nostra vita. Risalendo con la memoria fino all’inizio, dal primo sguardo di nostra madre all’ultima persona che 10 minuti fa ci ha sopportato, tutto è stato un immenso regalo. Bisogna dunque ripartire da una cultura del dono che è necessariamente cultura della povertà. La realtà più profonda è che tutti siamo poveri, e che tutti abbiamo anche qualcosa di bello e di importante da regalare. Allora siamo poveri, ma siamo anche ricchi. Questa è la cultura dalla quale bisogna ripartire, dove la cultura della povertà diventa la cultura del dono.Nella seconda parte dell’articolo 4 della Costituzione italiana si afferma: «Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società». Ha il dovere di farlo in quanto ha ricevuto molti doni: tali doni diventano la responsabilità di ciascuno e di tutti. Ognuno deve mettere in atto un’attività, un esserci, un partecipare, che sia importante per il bene di tutti. Sempre in obbedienza alla Costituzione ognuno può e deve esercitare la sua cittadinanza in pienezza e quindi restituire, per il bene di tutti, il dono che da tutti ha ricevuto. Questa, mi pare, potrebbe essere la strada della pace.