mercoledì 16 novembre 2011
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​La modernità non minaccia la fede, anzi ne valorizza il tratto «esistenziale». «La modernità non consiste certo solo di negatività. Essa ha in sé grandi valori morali che vengono proprio anche dal Cristianesimo». Così Benedetto XVI spiegava, nel libro-intervista Luce del mondo, il suo punto di vista sul rapporto tra fede e epoca moderna. Il gesuita irlandese Michael Paul Gallagher, docente di teologia fondamentale all’università Gregoriana di Roma, mette in risalto nel suo recente libro Mappe della fede quei Dieci grandi esploratori cristiani (Vita & Pensiero, pp. 208, euro 16) che possono fungere da bussole nel mare magnum dell’era moderna e post-moderna. Newman, Blondel, Rahner, Balthasar, Lonergan i grandi teologi del passato scandagliati da Gallagher. Ma anche la scrittrice Flannery O’Connor, la «voce» luterana di Dorothee Sölle, e tre nomi attuali: Charles Taylor, il filosofo de L’era secolare, Pierangelo Sequeri, teologo milanese, e appunto Ratzinger.Con la conferenza "La modernità come questione per la Chiesa" padre Michael Paul Gallagher apre oggi il convegno "L’uomo dell’età moderna e la Chiesa" promosso dalla Pontificia Università Gregoriana. Con Costantino Esposito, Maurizio Merlo, Richard Schaeffler, Pierre Gilbert, Eberhard Schockenhoff, Presente anche José Funes, direttore della Specola Vaticana. Sabato 19 novembre concludono il vescovo emerito di Coira Peter Henrici e il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio per la cultura.Quei dieci intellettuali della «mappa» hanno in comune - lei scrive - la volontà di «ripensare la fede in modi capaci di raggiungere l’uomo d’oggi». Oltre a ciò, cosa li accomuna? «Tutti riconoscono, e vi rispondono implicitamente, la non credenza pratica e diffusa che caratterizza la loro e nostra epoca. Ciascuno cerca di rendere giustizia all’avventura della fede intesa come "esodo" (Ratzinger) o "dramma" (Balthasar), e non solo come una teoria su Dio. A livello teologico cercano di unire tre diversi piani: verità, libertà e affettività, dimensione - quest’ultima - presa in considerazione soprattutto da Lonergan e Sequeri. Newman traduce l’affettività nel termine "immaginazione", perché unicamente nel campo dell’immaginazione (era la sua tesi) la fede tocca il cuore e non solo il pensiero. Tutti e dieci danno pieno risalto al ruolo dell’intera persona nel processo di fede, che per Lonergan consiste nella "conoscenza nata dall’amore". In un certo senso questi sono intellettuali "esistenzialisti" perché per loro la fede è vissuta e non solo pensata. In questo, rappresentano dei "ribelli" verso la neoscolastica».Quali gli aspetti positivi che l’era moderna offre al cristianesimo secondo le sue «mappe»? «Il contesto culturale, decisivo per la fede, è radicalmente cambiato nella modernità, in particolare in quella "tarda", cioè la nostra epoca attuale, fluida e plurale. Tutti i pensatori che ho preso in considerazione ammettono che una conquista particolare dell’era moderna è la consapevolezza della dignità della persona, quella che Taylor definisce "la ricerca di una vita autentica". Tale consapevolezza porta sia Newman che Ratzinger a cercare le vie di un personalismo cristiano che non scivoli nel soggettivismo. Nessuno di loro teme di parlare di "esperienza religiosa", in modo che la fede non scada ad essere solo qualcosa di intimo». Da esperto di letteratura, oltre a Flannery O’Connor, quali altri romanzieri del ’900 avrebbe voluto inserire nelle sue "mappe"? «Faccio una premessa: Gesù ha sempre parlato alle folle in parabole. Questo per dire il privilegio della narrativa nel risvegliare la sensibilità religiosa della gente. Dunque, se facessi un altro libro dedicato agli scrittori, di certo inserirei Gilbert Chesterton e il mio ex professore John Tolkien. Ma anche due Nobel come Saul Bellow e Patrick White. Li ho conosciuti entrambi ed erano segnati da una passione religiosa "alla Dostoevskij". Si facevano portatori di una teologia (forse non ortodossa …) come lotta della fede nel mondo moderno, una sorta di teodicea contemporanea». Lei interverrà oggi al convegno in Gregoriana su "L’uomo dell’età moderna e la Chiesa". Quali scrittori contemporanei considera fecondi suggeritori per il cristianesimo nell’attualità?«Mi vengono in mente tre nomi. Il primo, lo scrittore irlandese (residente a New York) Colum McCann, autore del recente Questo bacio vada al mondo intero (Rizzoli). Questo magnifico romanzo assomiglia molto al più religioso dei film dell’ultimo anno, The tree of life, di Terrence Malick. In entrambe le opere il dolore del lutto arriva ad una guarigione che sottende la presenza di un Dio nascosto e prefigura la possibilità di una riconciliazione profonda dell’uomo. Tra i giovani, almeno in Nordamerica, è molto letto Douglas Coupland, artista e romanziere, che nei suoi libri evoca un mondo frenetico attraversato dalla ricerca e dal desiderio di preghiera: una sorta di Hermann Hesse dei nostri giorni. Cito infine il mio ex studente Niall Williams, autore di Quattro lettere di amore (Dalai), un viaggio spirituale segnato dal realismo magico. Per usare una categoria di Rahner, questi autori sono una sorta di "mistagogia" della fede, perché rappresentano un’introduzione immaginativa all’esperienza religiosa». Dunque, come diceva Elias Canetti, sono sempre gli scrittori «i segugi del nostro tempo» anche in fatto di fede?«Ai teologi non spetta scrivere romanzi o racconti, ma riconoscere che un romanzo o un film, anche se opera di non credenti, possono parlare di fede. La teologia deve avere più coraggio in questo, superando anche certe barriere accademiche. Quando durante le mie lezioni cito un romanzo, una poesia o un film, vedo crearsi un silenzio di un’altra qualità rispetto al solito. La letteratura porta ad una riflessione di alto livello, soprattutto tra i giovani».
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