In mezzo secolo amazzonico, di crinali ne ha attraversati tanti. Eppure, per dom Erwin Kräutler sono tre le date spartiacque della sua esperienza di uomo e pastore. Il 16 ottobre 1987, quando un’auto killer cercò di ucciderlo e, invece, assassinò il sacerdote che l’accompagnava, l’italiano Salvatore Deiana. Il 15 febbraio 2005, giorno dell’omicidio dell’amica e collaboratrice, suor Dorothy Stang.Dell’ultimo «giro di boa», il 29 giugno 2006, ricorda perfino l’ora esatta: «Erano le 22. Dopo aver celebrato l’Eucaristia ad Altamira, mi ero messo a lavorare nello studio. D’improvviso è arrivato il comandante della polizia insieme a due agenti – racconta ad
Avvenireil vescovo dello Xingu –. E mi ha comunicato che, per ordine della Segreteria dei diritti umani della Presidenza, venivo messo "sotto protezione"».Da quel momento, cioè, a causa delle continue minacce di morte, diventate più insistenti per l’opposizione alla faraonica diga di Belo Monte, una scorta avrebbe accompagnato il presidente del
Consiglio indigenista missionario (Cimi) in qualunque spostamento. «Ho perso così la libertà di muovermi da solo. Quella però di dire e scrivere ciò che penso in difesa dei popoli dell’Amazzonia e della loro foresta nessuno potrà mai togliermela».A 76 anni dom Erwin non ha perso la grinta con cui, nel 1965, lasciò la nativa Austria per le rive dell’impetuoso fiume Xingu: la «casa di Dio», come lo chiamano i nativi. Guidato da «una misteriosa intuizione» di cui «non mi sono mai pentito» – racconta con tono pieno di passione. Lo stesso che traspare dalle pagine di
Ho udito il grido dell’Amazzonia (pp. 288, euro 15), l’autobiografia di Kräutler appena pubblicata in Italia da Emi, a cura del teologo Paulo Suess con la prefazione di Leonardo Boff. Molto più di una raccolta di aneddoti, seppur accattivanti. Il libro ripercorre la recente storia brasiliana da una prospettiva inedita, quella degli eterni invisibili, gli ultimi "reduci" di un’altra epoca e come tali ritenuti sacrificabili in nome di quella fantomatica idea di progresso venduta a buon mercato da latifondisti e signori dell’agro-business.La prospettiva degli indios. La stessa di dom Erwin che, da 5 decenni, vive al loro fianco. Condividendone l’impegno per salvare la foresta dalla fame insaziabile di risorse delle grandi società idroelettriche e minerarie, dell’industria del legname, delle monocolture di soia e palma. «"Ho visto l’afflizione del mio popolo e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori". Sono le parole di Dio, Adonai, nostro Signore, nell’Esodo. Ma, con tutto il rispetto, io posso pronunciare quelle stesse parole perché ho incontrato un popolo schiavo», scrive il vescovo e missionario della congregazione del Preziosissimo Sangue.Una frase rivelatrice. Alla radice dell’impegno di dom Erwin non c’è un ideale ecologista, magari un po’ fanatico e ottuso, bensì la parola di Dio. Il Dio biblico che, nella concretezza della storia, prende posizione a favore degli ultimi. Senza dimenticare, però, i primi: a costoro il Signore rivolge un’esortazione incessante perché si liberino dall’oppressione del business ad ogni costo: anche quello della sopravvivenza di interi popoli e dello stesso pianeta. La lotta per la difesa dell’Amazzonia è, dunque, lotta in difesa della vita: «Papa Francesco l’ha già detto numerose volte e ora tale tematica sarà affrontata in modo contundente nell’enciclica che sarà presentata domani», dice il vescovo.L’enorme foresta di smeraldo incastonata nel cuore del continente latinoamericano «non è solo flora e fauna, per quanto meravigliose. È la patria di innumerevoli popoli che la abitano da millenni e ora sono minacciati di morte, fisica e culturale. È la patria delle famiglie che vivono lungo le rive dei fiumi e laghi da cui ricavano "il pesce quotidiano". È anche la "terra promessa" delle migliaia di migranti venuti negli ultimi decenni da ogni angolo del Brasile in cerca di opportunità. Mi è toccato essere vescovo di queste genti e, come pastore, devo impegnarmi a difenderli. Per questo lotto per l’ambiente: non è solo la cornice nella quale questi popoli abitano. È la terra in cui, con cui e da cui vivono». E grazie alla quale viviamo anche noi.