Le sue parole più note messe ad
exergo del sito internet ufficiale, gestito dalle quattro figlie di Alda Merini (Milano, 1931-2009) forse sono proprio queste: «Sono nata il ventuno a primavera / ma non sapevo che nascere folle, / potesse scatenar tempesta. / Così Proserpina lieve / vede piovere sulle erbe / sui grossi frumenti gentili / e piange sempre la sera. / Forse è la sua preghiera». Forse il sito «ufficiale» vuole ricostruire con un senso familiare Alda Merini. La sua vita negli ultimi anni è stata «saccheggiata» da tutti. Tutti la conoscevano e sapevano che aveva disturbi psichici. Il primo ricovero in un ospedale psichiatrico è stato nel 1947. È morta due anni fa all’ospedale San Paolo di Milano. Il resto è cosa più o meno conosciuta. Era una leggenda Alda Merini. Il suo era un mescolare vita e arte fin dal precoce esordio al silenzio di vent’anni dovuto alla malattia, scontata (e spiegata in una sua)
Terra Santa. Leggendo ora i versi più segreti della Merini in
Poesie e satire, a cura di Giuseppe Zaccaria (Einaudi, pp. 102, euro 12) – che sono tra quelli conservati al Fondo manoscritti dell’Università di Pavia (ancora da catalogare) – alcuni raccolti dall’autrice stessa (dopo tanto aiuto avuto nella vita da poeti e da editori) in due libriccini per pochi amici, con tanto di copyright (nel 1981 le poesie e nel 1986 le satire, più alcuni racconti ispirati dal mondo che conosceva, il suo quartiere dei Navigli a Milano. Polisindeti e rime si trovano accanto a un dettato più dolce o più insistito. In una mistica insieme visionaria e realistica, scossa da umori e realtà (in un suo «Manifesto» disse di avere in gran pregio il realismo). I disturbi psichici di cui soffriva Alda Merini, come accade a tanti che non hanno il demone consolatorio della poesia o come altri grandi del passato afflitti da una malattia, sono ben percepibili nella recente raccolta. Sono gli scritti più riservati, in merito al sentire, quelli che la poetessa aveva conservato prima per sé, negli anni seguenti per darli a una persona che a suo giudizio ne aveva bisogno e non per farsi «pubblicità».«Semplicemente per farne dono – scrisse – a una persona che soffre e che forse da queste mie pagine fatte alla svelta può ancora trarre la misura del mio amore». Il germe delle
Poesie, spiega, era in una
plaquette pensata per l’editore Scheiwiller (correva l’anno 1965), dal titolo
Poeti e rivoluzione, progetto poi accantonato. Quanto al dono della poesia, esso per lei aveva due facce, come in una medaglia: Alda Merini si chiede come possa essere autrice, «che cosa abbia contribuito a farmi poetessa; al principio era come un dono immenso, poi è diventata l’immensa fatica di offrire qualcosa, di provare la mia esistenza. È certo che non è un libro giusto come ingiusta è stata la mia esistenza». Alda Merini aveva una personalità complessa e multiversa, spesso sofferente, come molti («il tavolo è un appoggio segreto / un ectoplasma del cuore»). Inoltre, e non infine, è poesia a tratti religiosa, come tante composizioni «oracolari» degli ultimi anni della sua vita, quando si faceva sibilla a una voce amica al telefono. In
Il canto gregoriano, in cui si rivolge a Cristo, sembra disegnare un’apocalisse: «Strappate gl’impianti stereofonici dalle chiese / le nostre bocche bastano, / Kirie eleison, / Kirie eleison // Dunque torna fra noi / con la tromba dei giusti / e che la gente alla tua venuta // sia tutta assunta nel cielo / così sulla terra / resterai tu nuovo adamo / a patire la nostra crocefissione. // Kirie eleison, Kirie eleison». Se capita che aspetti un amico, la poetessa milanese dei «reietti» e dei poveri, i clochard di Ripa Ticinese (vedi i bozzetti di persone che popolano i
Racconti da cortile) si ritrova con lui sola come con un pensiero: «il tuo solito pensiero triste / di uno che ti accompagni». Poi vi sono le notti in cui arriva il «delirio» ma «la follia / resta la sola filosofia dell’arte, / è il solo panegirico dolce / equivalente all’amore». Per lei la parte malata «della mia povera testa / ha visto la corona del Cristo / e se la porta sul capo // ancora nell’anno duemila...» La poetessa che scriveva
A Milano si muore, era molto legata (e i racconti lo spiegano bene), al suo quartiere e ai suoi clochard: vinto un premio soggiornò per un po’ in un hotel. Un episodio che dice del suo grande cuore: visse un po’ all’hotel, poi, dati tutti i soldi ai «barboni», ritornò alla sua piccola casa con i muri da lei istoriati, fumando le sue onnipresenti sigarette. E proprio ieri una figlia ha lanciato un appello per salvare una parete dove Alda trascriveva, con penne e rossetto, i suoi appunti; pare che il Comune voglia farla staccare per rimontarla in una casa-museo dedicata alla poetessa.