L’aggettivo giusto, per questa mostra inaugurata al Museo d’arte di Ravenna, è: imponente. Dire che sia una bella mostra sarebbe generico e inappropriato. La bellezza c’è, ma resta quasi accessoria, come valore aggiunto estetico a qualcosa che pone anzitutto una questione tecnica e racconta come essa si è dipanata storicamente fino ai nostri giorni. Il fil rouge è appunto questo e solo questo, nella mostra curata da Claudio Spadoni e Luca Ciancabilla (che nel catalogo edito da Silvana ripercorre diffusamente lo sviluppo delle metodologie). Non vi sono, dunque, tematiche o ipotesi critiche a legare tra loro le opere, ma soltanto il comune destino di essere state separate dal muro che le aveva viste nascere. Il soprintendente Luigi Ficacci dimostra la sua onestà intellettuale quando fa capire nella nota introduttiva che si tratta di una mostra tecnica, apparentemente “difficile”, anche se poi tenta di blandire lo spettatore scrivendo che «in questo [la mostra] professa un’elevata considerazione del visitatore comune». E a questo fa seguire una filippica contro le mostre prodotte dall’industria culturale (vedi, aggiungo io, l’attuale rassegna costruita attorno alla ragazza di Vermeer a Bologna), eventi «estranei all’ambito proprio dell’elaborazione culturale (dello studio e della ricerca) ». Sfonda una porta aperta, il dottor Ficacci; ma perché – mi chiedo – sente poi il bisogno di ribadire che la mostra ravennate «non manca di spettacolarità »? Non è forse la spettacolarità il discriminante del linguaggio televisivo e dell’enfatizzazione estetica (che fa breccia e si realizza fisicamente nello spazio urbano con architetture oggi concepite come un involucro da lunapark)? È in questa strana premura per la spettacolarità che ogni critica al sistema sconta il proprio moralismo. Sì sì, no no. Il resto è ipocrisia. Alcuni, credo, trovandosi davanti a un affresco “strappato” dal muro per il quale era stato dipinto, si saranno domandati: «Ma come hanno fatto a staccarlo senza distruggerlo?». La curiosità, legittima e quasi irresistibile, viene adesso soddisfatta anche per i comuni mortali da questa mostra che ambisce a fare il punto su una vicenda che ha avuto un’accelerazione nel Novecento. Tre sostanzial- mente le tecniche: la più antica, attiva soprattutto dal XVI secolo, era “a massello” (si segava la sezione di muro su cui era compresa l’opera e la si collocava in un museo): così sono stati “estratti” affreschi come la Maddalena di Ercole de Roberti, o con una procedura simile Il Volto di Cristo dell’Angelico o gli Angeli musicanti di Melozzo. L’apice si ebbe nella Roma settecentesca con le imprese estrattive di Niccolò Zabaglia. Ma già si preparava una rivoluzione, con le sperimentazioni del ferrarese Antonio Contri ideatore di “un meraviglioso artifizio” per strappare dal muro l’affresco senza tagliare la muratura. Ma Contri si portò nella tomba (1731) il suo segreto tecnico, e solo a fine Settecento l’imolese Giacomo Succi ne raccolse il testimone perfezionando la tecnica: la più antica operazione di strappo che oggi si ricorda è quella della Sant’Anna e di un Profeta dipinti da Bartolomeo Cesi nella Cattedrale di Imola, e risale al 1775-76. Da allora si manifestò una vera frenesia dell’estrazione e vennero asportati affreschi di Giulio Campi, Bernardino Luini, Nicolò dell’Abate, Annibale Carracci, Romanino, Guido Reni, Domenichino, Paolo Veronese, Garofalo e molti altri. A vantaggio del collezionismo che chiedeva sempre di più opere di questo tipo. Fu però nel Novecento, alla fine della seconda guerra mondiale, sotto il condizionamento dell’immane disastro bellico, che si ebbe una vera e propria “stagione degli stacchi” stimolata anche dalla “caccia alle sinopie”, ovvero gli studi grafici eseguiti dai pittori prima di accingersi a realizzare il manto affrescato. Il grande attivismo in quest’ambito si deve all’allarmismo diffuso da alcuni storici dell’arte italiani, da Longhi a Brandi a Bianchi Bandinelli, che proponevano una vasta e diffusa opera di distacco degli affreschi come prevenzione rispetto a future distruzioni belliche. Preoccuparsi delle opere d’arte era certo legittimo e doveroso, ma con questa logica avrebbero dovuto estrarre Giotto ad Assisi e a Padova, Michelangelo nella Sistina, Masaccio nella Brancacci e a Santa Maria Novella, Raffaello nelle Stanze vaticane, la Resurrezione di Piero a Sansepolcro ecc. A pensarci, una vera follia. Oggi del tutto superata. Ben altro discorso quello di salvare un affresco dal degrado ambientale e dalla fatiscenza muraria. L’esempio forse più interessante, perché a distanza di un secolo fa ancora discutere, è quello della Madonna del Parto di Piero della Francesca. L’affresco era stato per secoli quasi dimenticato, fu un erudito aretino, Vincenzo Funghini, nel 1889 a riconoscervi la mano di Piero vedendolo nella chiesetta del cimitero di Monterchi. La storia affascinante di quest’opera è un caso da manuale. Era stata dipinta da Piero per una chiesetta di campagna ai piedi della collina di Monterchi. A fine Settecento, il sito della chiesa venne scelto per realizzare il nuovo cimitero, la chiesa fu in gran parte demolita e ciò che ne rimase divenne una cappella funebre. L’affresco venne estratto “a massello” e posto in una parete della chiesa originaria sopravvissuta al rimaneggiamento. Circa vent’anni dopo la riscoperta del Funghini, nel 1911, la Soprintendenza decise di asportare l’affresco per garantirne la conservazione. Nel 1917 un sisma particolarmente forte convinse le autorità del luogo a metterlo al sicuro, e solo nel 1922 l’opera ritornò nella Cappella del cimitero. Passarono settant’anni e nel 1992, centenario della morte di Piero, l’affresco venne sottoposto a restauro e collocato temporaneamente sotto una teca climatizzata nell’ex scuola media di Monterchi. Il nuovo spazio, però, completamente riorganizzato, è diventato il museo permanente allestito attorno a quest’unica opera vista ogni anno da migliaia di turisti. Fu in quel momento che si aprì anche il contenzioso, tuttora in corso, fra Comune, Soprintendenza e Diocesi. Quest’ultima chiede che l’affresco torni in uno spazio sacro che lo restituisca alla devozione. La Madonna del Parto riassume in sé tutte le questioni in ballo quando si parla di affreschi “strappati”, ma, paradossalmente, l’opera più emblematica a Ravenna non è esposta: potevano i monterchiesi privarsi di una tale attrattiva? Evidentemente no. Che dire? È indubbio che la Madonna del Parto aveva una funzione religiosa che oggi è stata messa tra parentesi. Per usare una espressione di Walter Benjamin, si può dire che, chiusa sotto una campana di vetro per essere ammirata dai turisti, la Madonna di Piero ha visto prevalere il “valore di esposizione” su quello “cultuale” e “religioso”. Un tema che oggi dovrebbe essere ripreso in mano dalla critica. E non solo per quanto riguarda l’opera di Piero.
Ravenna, Museo d’ArteL’incanto dell’affrescoFino al 15 giugno