sabato 20 agosto 2011
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Come per mezzo di un solo uomo il peccato entrò nel cosmo...». Così san Paolo nella Lettera ai Romani rievoca il peccato originale. Nell’atto di Eva che mangia il frutto proibito si ravvisa il peccato individuale: ma perché dobbiamo tutti portarne la colpa? Paolo Ferliga, psicoterapeuta e docente di filosofia cerca di rispondere al quesito nel volume Attraverso il senso di colpa (San Paolo, pagine 182, euro 13,00). «Sono partito – spiega – dall’idea che la colpa svolga nella vita psichica di ciascuno un ruolo fondamentale. Osservando che spesso proprio l’assenza di senso di colpa è segno di gravi disturbi psichici, mi sono interrogato sul valore positivo che la colpa riveste nella dinamica psichica. Allargare lo sguardo dalla situazione clinica a quella più ampia di tipo culturale, mi ha aiutato a formulare l’ipotesi che vi siano due diversi tipi di colpa, una archetipica, che trascende la volontà individuale, e una personale, legata alla propria responsabilità. Dalla colpa personale derivano anche gli aspetti patologici del senso di colpa, che richiedono di essere curati. Quella archetipica invece, come il peccato originale, ci accompagna fin dalla nascita. Di questa colpa parlano, non solo la psicoanalisi, ma anche la filosofia, la tragedia greca e, appunto, la Bibbia».Si riferisce alla filosofia greca?«Infatti il frammento di Anassimandro, il primo testo scritto della filosofia occidentale, collega la nascita degli esseri all’espiazione di una colpa originaria, dando così inizio a una riflessione che attraversa tutto il pensiero occidentale».E anche alle neuroscienze?«Queste mostrano che esistono emozioni di fondo comuni a tutti e altre emozioni, tra cui il senso di colpa, legate ai rapporti sociali. Io ipotizzo invece che ci sia un senso di colpa anche tra le emozioni di fondo. A questo proposito, di recente, uno studio dell’istituto di ricerca Santa Lucia di Roma (coordinato da Marco Bozzali e Barbara Basile) ha rilevato attraverso una tecnica di neuroimaging (con cui è possibile “fotografare” l’attività cerebrale tramite immagini computerizzate) che il senso di colpa interessa due differenti aree del cervello, a seconda che dipenda da una responsabilità personale o dall’assistere alla sofferenza di un altro».Nel suo libro lei dedica due capitoli a Sigmund Freud e a Melanie Klein. La sua analisi però si ispira in particolare al pensiero di Carl Gustav Jung?«Mi sembra infatti che solo Jung riesca a cogliere, proprio perché riconosce l’esistenza di un inconscio collettivo abitato da archetipi, il carattere indispensabile della colpa. Per diventare se stesso, ciascuno deve separarsi dalla dimensione collettiva e riconoscere il senso di colpa che da tale separazione deriva. Riecheggia nella riflessione di Jung l’idea di Anassimandro che la colpa nasce quando gli esseri si separano dal tutto. Secondo Jung questo tipo di colpa deve essere espiato restituendo qualcosa alla comunità, creando dei valori positivi che compensino ciò che il singolo sottrae alla comunità proprio per individuarsi. Vedo in questa riflessione un’analogia con l’idea tipicamente cristiana che il riconoscimento della colpa, da cui tutti siamo toccati, ci spinge a espiare tale colpa impegnandoci nella relazione con gli altri».Quindi il riconoscere la propria colpa porta all’azione?«Spesso nello studio dello psicoterapeuta si presentano oggi giovani adulti che parlano di un disagio e di una sofferenza in cui è del tutto assente il senso di colpa. Avvertono piuttosto la mancanza di senso della vita, che spesso cercano di riempire ricorrendo all’uso di sostanze, dall’alcol alla cocaina. Prigionieri di un’immagine di sé narcisistica, non riescono a entrare in contatto con le proprie emozioni di fondo. Spesso non riescono ad amare. Solo quando compare in loro la depressione, che porta con sé un doloroso senso di colpa, iniziano a guarire liberandosi dalle dipendenze e dal narcisismo».Nel suo precedente libro, “Il segno del padre”, aveva indagato questi comportamenti in quanto legati alla società “senza padre”, cioè senza autorità...«Certo, perché l’imago paterna struttura la norma interiore attraverso la quale si definisce la differenza tra bene e male. Se l’immagine del padre sbiadisce, tutto diventa lecito. Viene meno infatti il senso di colpa archetipico, quell’emozione di fondo, tipica dell’essere umano, che consente a ciascuno di noi di riconoscere nell’altro un fratello da rispettare e amare».
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