L’osso scagliato in aria da una scimmia volteggia al rallentatore nel cielo lucente e, in un’inaspettata dissolvenza, si trasforma in navicella a forma di sigaro che abborda la stazione spaziale nel nero della notte cosmica. Un astronauta solitario nello spazio rimane senza ossigeno, si divincola e fluttua nel vuoto perdendosi nell’infinito delle galassie. Sono le immagini più choccanti e poetiche di 2001: Odissea nello spazio, di Stanley Kubrick uscito nelle sale cinquant’anni fa e annoverato tra i primi dieci capolavori del cinema mondiale. Presentato in anteprima assoluta il 2 aprile del 1968 a Washington (in Italia arrivò l’11 dicembre), il film ottenne quattro nomination e un Oscar per gli effetti speciali pensati apposta dal regista statunitense per costruire il grande spettacolo dell’alba dell’uomo e della lotta alla conquista dell’universo. Come altre opere di Kubrick anche 2001 provocò sorpresa e sconcerto negli spettatori: per la complessità del messaggio, le allegorie e il finale aperto, la storia, volutamente frammentaria, non appariva subito comprensibile. «Siete liberi di speculare sul significato del film – spiegò l’autore – ma io non voglio precisare una sua chiave di interpretazione altrimenti la paura ha mancato il suo scopo». Siamo i figli delle stelle, frutto di una reazione chimica, o esiste un’entità suprema che ci ha generato e determina il nostro destino? È il dilemma di sempre che il regista non risolve qui in modo esplicito “limitandosi” a descrivere, con drammatico realismo e calcolata visionarietà, la condizione umana nel cosmo interrogandosi sul ruolo del progresso tecnologico e della scienza. Kubrick fa vivere al pubblico un’esperienza forte, basata su immagini, musica e suoni che avvolgono, catturano, provocano l’immaginazione, aprono dubbi. Il soggetto del film fu ispirato dal racconto di fantascienza La sentinella di Arthur C. Clarke il quale collaborò con il suo amico Stanley nella stesura dello script da cui scaturì, in seguito, un romanzo scritto a quattro mani. In epoca preistorica un branco di scimmie che vive nel deserto africano insieme con dei tapiri scopre uno strano monolito nero: è un sottile parallelepipedo che diffonde un’energia da cui dipende l’evoluzione degli ominidi. Si tratta del medesimo oggetto di origine extraterrestre intercettato quattro milioni di anni più tardi, all’inizio del XXI secolo, su un cratere lunare dalla gigantesca astronave Discovery in missione nello spazio: è stato deliberatamente sepolto da “qualcuno” ed emette un segnale diretto verso Giove. Seguirne le tracce significa quindi andare alla sorgente della vita.
Sarà un viaggio verso l’ignoto quello di David Bowman (Keir Dullea), Frank Poole (Gary Lockwood) e di altri tre cosmonauti trasportati in stato di ibernazione, un’avventura guidata da una macchina pensante, Hal 9000, un supercomputer che imita il cervello umano, un occhio gigante sempre presente, quasi un “Grande fratello” orwelliano, un “essere” perfetto e a prova di errore che però, di fronte alla menzogne e alle reticenze dell’equipaggio su alcuni segreti della missione impazzirà ribellandosi ai suoi inventori. Ma nella lotta ultima tra David, l’uomo, e Hal, l’occhio elettronico divenuto capace persino di uccidere (Ulisse contro Polifemo?) alla fine la spunterà il primo che, costretto a entrare in un corridoio psichedelico spazio-temporale, andrà incontro al proprio destino: invecchiare, morire (in una camera luminescente in stile Decò) e rinascere in una specie di partenogenesi per iniziare in qualche posto dell’universo un altro ciclo di vita. L’immagine conclusiva, infatti, è quella di un feto che naviga tra gli astri (di notevole impatto emotivo la sequenza stargate con i fasci di luce) mentre in sottofondo tornano le note drammatiche di Così parlò Zarathustra di Richard Strauss interrotte all’improvviso da quelle allegre del valzer Sul bel Danubio blu di Johann Strauss jr, in una sorta di danza siderale che introduce e accompagna i titoli di coda. Un finale poderoso per un film enigmatico ma pieno di suggestioni acustiche e visive come l’uso insolito dei commenti musicali (tra cui il Requiem di Gyorgy Ligeti), il respiro affannoso dell’astronauta con lo scafandro, la voce sintetica di Hal, i lunghi angosciosi silenzi nelle scene d’azione, i colori delle galassie, le ingegnose navi spaziali. I dialoghi sono ridotti all’essenziale, il lavoro di montaggio è fondamentale per dare consistenza ai “trucchi” messi in atto da Kubrick, un perfezionista della macchina da presa. Il regista iniziò a lavorare al suo settimo lungometraggio (il primo di fantascienza) tre anni prima: erano i tempi della Guerra fredda tra Usa e Urss combattuta anche con la corsa alla Luna. Un tema che agitava il mondo con il pericolo incombente di un conflitto nucleare. In 2001: Odissea nello spazio invece Kubrick preconizza, alle soglie del nuovo millennio, un’alleanza tra le due grandi potenze nella scoperta di nuovi pianeti.
Ma la vera profezia sta nell’aver anticipato, mezzo secolo fa, il drammatico rapporto tra l’uomo e l’intelligenza artificiale e i rischi connessi allo sviluppo di scienza e tecnologia. Per due mesi Kubrick si barricò nella sua villa di Abbots Mead, nelle campagne londinesi, a tagliare e cucire le centinaia di scene girate per quasi un anno negli studios di Elstree (la Hollywood britannica, smantellata nel 1993) con modellini di navicelle e riproduzioni, tutte scientificamente plausibili, di satelliti, astronavi e shuttle. Con lui lavorò Douglas Trumball (lo stesso che in seguito realizzò gli effetti speciali per Incontri ravvicinati del terzo tipo, Star Trek e Blude Runner). Il presidente della Metro International Maurice Silverstein chiamò a collaborare anche il regista italiano di genere Antonio Margheriti (noto negli States come Anthony M. Dawson) che però rifiutò perché – raccontò anni dopo in un’intervista – lui che era un «semplice artigiano del cinema abituato a lavorare con le mani» non sopportava «di restare chiuso in una stanza per tutto quel tempo a pensare», come pretendeva Kubrick. Famose le telefonate, che potevano durare anche quattro ore, tra il regista americano e il collega, allora poco più che ventenne, Steven Spielberg al quale chiedeva consigli su come creare le scene di fantascienza più ardite.