mercoledì 8 luglio 2015
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Era necessario che, settanta anni fa, si pronunciasse il “mea culpa” in quella Germania anno zero della quale Roberto Rossellini aveva quantificato la disperazione nella figura del dodicenne Edmond, allo sbando in una Berlino distrutta, settanta milioni di metri cubi di macerie e di rovine spirituali. Nella primavera-estate del 1945 emerge, del periodo nazista, una realtà di violenza che i cittadini tedeschi devono guardare in faccia, a decine di migliaia costretti dai vincitori a visitare le centinaia di lager disseminati sul suolo della patria: il “non sapevamo” di molti di loro era però un alibi che successive ricerche hanno dimostrato improponibile. Difficile e laboriosa sarà quindi la ricostruzione di una coscienza civile in un Paese che sentiva pesare su di sé un giudizio di responsabilità collettiva. E sul problema della colpa ci si interrogò subito. I primi a farlo pubblicamente furono i vescovi, a Fulda, il 23 agosto 1945. «Molti tedeschi – così recita un brano del documento conclusivo –, anche nelle nostre file, si sono lasciati ingannare dalle false dottrine del nazionalsocialismo… Una pesante responsabilità pesa su quanti avrebbero potuto impedire i crimini con la loro influenza e che non soltanto non lo hanno fatto, ma li hanno resi possibili, e con ciò si sono dichiarati solidali con i criminali». Un mese e mezzo dopo, a Stoccarda, le Chiese protestanti condividono l’assunzione di colpevolezza. Tre dirigenti sopravvissuti ai campi di concentramento, Otto Dibelius, Theophil Wurm e Martin Niemöller, redigono un testo in cui affermano «con dolore profondo: per causa nostra estreme sofferenze si sono abbattute su tanti popoli e Paesi… Ma noi ci accusiamo di non aver dato testimonianza con maggiore coraggio, né pregato con più perseveranza, né aver vissuto la nostra fede con più gioia, né amato con più fervore». Le Chiese, del resto, fra i vari “corpi” della società, erano quelle che, dopo i partiti politici, avevano pagato il prezzo più pesante alla dittatura, con morti, deportati, inquisiti, perseguitati. E insieme con esse, anche la cultura era uscita schiacciata dalla pressione nazista, con un esodo di venti-trentamila intellettuali, dalla letteratura al cinema, dal giornalismo alle scienze, e la costrizione al silenzio di quanti erano testardamente rimasti, esuli in patria. Fra loro aveva rifiutato di andarsene un grande nome della narrativa, Ernst Wiechert, spedito più volte nei lager, guardato a vista. Dopo la fine del conflitto compose capolavori come La selva dei morti, Missa sine nomine, I fratelli Jeromin; ma nel novembre 1945 aveva lanciato un tempestivo messaggio nel Discorso alla gioventù tedesca. Perché nei dodici anni del nazismo, scrive, «era stato strappato, dal cuore di un’intera gioventù, ciò che a ogni gioventù risplende intorno come una nuova aurora: l’aspirazione senza riserve verso un mondo migliore, il più giusto e il più nobile dei mondi, la più devota reverenza dinanzi agli altari dell’umanità, il cavalleresco contegno verso i deboli, i sofferenti, i vinti». Wiechert si era reso conto che bisognava ricominciare da loro, dalle giovani generazioni che avevano respirato un’aria da cui erano stati indotti a una sorta di diffidenza generalizzata, da superare soltanto di fronte alle testimonianze di chi si era immolato per i valori. Come i martiri della Rosa Bianca.In quello stesso novembre del 1945 il filosofo e teologo Romano Guardini, un altro che era stato messo al bando dal regime, tenne un discorso agli alunni dell’Università di Tubinga in ricordo del gruppo di studenti di Monaco di Baviera. Animati dalla fede nella libertà e nella giustizia, avevano contestato la dittatura sino al sacrificio e alla condanna a morte di sette di loro, i due fratelli Scholl, Sophie e Hans, Alexander Schmorell (ortodosso, sarà proclamato santo dalla sua Chiesa), Willi Graf, Christoph Probst, Hans Leipelt, con il professore e musicologo Kurt Huber. La loro lotta era stata, disse, «per la libertà dello spirito e per l’onore dell’uomo, e il loro nome resterà legato a questa lotta. Nel più profondo hanno vissuto però nell’irradiazione del sacrificio di Cristo, che non ha bisogno di alcun fondamento nell’esistenza immediata, ma sgorga libera dalla fonte creativa dell’eterno amore». Si erano ribellati, per Guardini, «contro il degrado e la distruzione causata al popolo da quelli che si proclamavano le sue guide, e la loro azione, impotente se considerata da un punto di vista realistico, forse perfino folle, porta in sé questo significato ed è assurta a simbolo della nobiltà umana… Erano impegnati a superare la sconfinata confusione dei concetti, il terribile travisamento e imbrattamento dei valori spirituali che si insinuava ovunque, tesi a far emergere le essenze nella loro nuda verità e a ristabilire gli ordini dell’esistenza così come essi sono veramente».I messaggi di quel primo scorcio di dopoguerra hanno impiegato un po’ di tempo per portare a risultati compiuti; ma la loro importanza è che siano stati lanciati tempestivamente, con autorità e in piena consapevolezza. La storia ci dice che ne sono stati colti i frutti.
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