C’è una faziosità atavica nella cultura politica che, comprensibilmente, diventa rancore ottuso al momento in cui l’accertamento storico-critico investe il Moloch irragionevolmente granitico e violento della 'vulgata' resistenziale.Un’isteria e un’insistenza banalmente provocatoria dell’affronto si risveglia in due circostanze: al ricordo dell’eliminazione, ad opera di partigiani comunisti, dei partigiani cattolici della «Osoppo» a Porzus nel febbraio 1944, uomini colpevoli di difendere territorio e popolazioni italiane dal disegno annessionistico titino; e il ricordo dei massacri degli italiani della Venezia Giulia, Istria, Dalmazia, da parte dei titini nel settembre 1943 e dalla primavera del ’45.La firma del Trattato di pace, imposto all’Italia dai vincitori (che non tennero il minimo conto della «cobelligeranza», delle forze della Resistenza, eccetera) il 10 febbraio 1947, non fu privo di reazioni negative, anche da parte di esponenti antifascisti che vanamente si opposero a quelle clausole. Seguì l’esodo di 350 mila italiani dall’Adriatico orientale; quegli antichi filmati in bianco e nero che mostravano lo sradicamento violento di radici culturali e socioeconomiche, e lo spezzamento di famiglie tra giovani che potevano ancora aspirare alla vita e anziani condannati alla non speranza nel regime comunista slavo, sono state allora interpretate come testimonianze di fascismo o revanscismo da parte di quanti non accettavano un’analisi storica articolata di quelle vicende. Un progressivo monopolio ideologico-culturale assolutizzante fino a controllare la memoria storica e le relative fonti di diffusione, con la complicità opportunistica e vile di un’intera classe politica, impose il silenzio. Nelle foibe, testimonianze atroci di pulizia etnica anti-italiana (in cui persero la vita decine di migliaia di italiani), furono precipitate allora le testimonianze e la memoria dei reduci, dei sopravvissuti, degli scampati. Achille Occhetto ha dichiarato pochi giorni fa di aver «appreso del dramma delle foibe solo dopo la 'svolta della Bolognina'. Prima non ne ero mai venuto a conoscenza »; testimone con ciò dello straordinario successo dell’operazione-silenzio. Occorsero 70 anni per giungere a riparlarne fuori dai piccoli, riservati circuiti degli esuli. Giusto dieci anni fa, il Parlamento votò pressoché all’unanimità la legge 92/2004 che dedicava il 10 febbraio, ricorrenza della firma del Trattato di pace, alla «memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano- dalmata, delle vicende del confine orientale ». Apparvero timide lapidi di ricordo e qualche via o parco intitolato alle vittime delle foibe; lapidi subito infrante: alto il rischio di ricordare, anche da semplicissime righe, che l’impianto ideologico costruito e imposto a difesa dell’indifendibile non poteva consentire di sbirciare oltre l’epicizzazione comunista, meno che mai accertare fatti tramandati da lapidi e monumenti falsi, medaglie con motivazioni farisaiche, in un sistema complesso di rigorosa vigilanza ideologica interna e internazionale.Sperimentato persino dal presidente Napolitano che, coraggiosamente, in occasione del suo primo «Giorno del Ricordo» celebrato da capo dello Stato, ricordò quelle «miriadi di tragedie e di orrori» conseguenti a «un disegno annessionistico slavo», richiamando all’assunzione della «responsabilità dell’aver negato, o teso ad ignorare, la verità». Seguirono reazioni insultanti dell’allora presidente croato Mesic, capace di scorgere in quelle parole «elementi di aperto razzismo, revisionismo storico e revanscismo politico». Nient’altro! Oggi, di fronte all’accettazione diffusa d’una realtà non più silenziabile (malaugurato crollo del muro di Berlino!), cambia il metodo: ciò che non è più nascondibile va allora ascritto alle precedenti responsabilità fasciste, talmente gravi e violente da giustificare una reazione slava. Ma se ne sono accorti solo ora? Perché non dirlo nei decenni del silenzio forzoso? Allora è stato silenziato persino l’antifascismo. Comunque attenzione: che il poi sia determinato da un prima non cronologico ma causale l’aveva detto anche Nolte, denunciando il nazismo come reazione al comunismo e il lager come conseguente al gulag. Non ebbe vita facile, ma può contare ora su un po’ di attardati seguaci. Basta, comunque, col mito degli «italiani brava gente» (anche se occorrerà reinterpretare Nuto Revelli, il quale incautamente ricordava che in guerra, nell’Unione Sovietica di Beppe Stalin, i soldati tedeschi presi prigionieri venivano fucilati sul posto, gli italiani avviati ai lavori forzati). Simone Cristicchi, da sinistra, dà vita ad uno spettacolo toccante, dedicato alle speranze estreme e alle vite degli esuli italiani racchiuse in qualche scatolone ammassato a Trieste nel «Magazzino 18»; grande pathos e grandi riconoscimenti critici; bene, immediate proposte perché gli venga ritirata la tessera ad onore dell’Anpi. E allora altrove va in scena Io odio gli italiani, piéce sulla drammatica vita nei campi di concentramento italiani da Gonars ad Arbe (chissà se anche sulle testimonianze degli ebrei qui internati?). Iniziative sospette di puntuale opportunismo, utile a creare il «caso» e dunque a godere di qualche richiamo di cronaca, e di banale prevedibi-lità, che testimoniano del successo del «Giorno del Ricordo»; come una lapide infranta: al silenzio lacerato segue la violenza. Hanno perso.