Caro direttore,mi permetto di scriverle come assiduo lettore della stampa quotidiana ed estimatore del nostro “Avvenire”, sul tema increscioso delle migrazioni ormai epocali che mettono alla dura prova l’Italia e l’Europa. Non desidero entrare in argomentazioni politiche, né soffermarmi sulle anacronistiche riproposizioni di egoismi localistici (da parte di personaggi immemori proprio della nostra storia), né tornare sulla sostanziale incapacità di governanti e parlamentari di prevedere le qualità, le cause e le urgenze dei fenomeni, né infine e tanto meno sulla ottusa politica europea frutto, a mio parere, anche qui di asservimento alla finanza internazionale. Le scrivo da cattolico, memore di cosa sia stato dall’origine il cristianesimo: il suo irradiamento tra le genti, le sue diaspore, le sue condivisioni. Le scrivo quasi operando una lettura di coscienza a riguardo di morti, sbarchi, naufragi, respingimenti... L’accusa la rivolgo a me stesso ed è quasi la stessa rivolta a Caino: «Dov’è mio fratello, Signore? Dimmi che non vedo, non so sentire». Per me è davvero un dramma di coscienza, e penso che dovrebbe emergere in noi e fra noi tutti.Rosario Giuffrè, Roma
Sono grato a entrambi questi lettori, perché in modo diverso e complementare – il signor Grosso in modo più “comunitario”, l’architetto Giuffré in modo più “personale” – con le loro intense riflessioni pongono la questione migratoria e del traffico degli esseri umani tra le due sponde del Mar Mediterraneo sul piano della coscienza. Non la affrontano cioè prima di tutto come un caso di ordine pubblico, ma come una storia di uomini e di donne che ci riguarda e ci interpella. Credo che questo sia il modo giusto. E poiché qui a fianco don Soddu, direttore della Caritas, dice altre essenziali cose sulle quali ho già speso parole anch’io, stavolta mi concentro solo su questo: bisogna partire dalle persone, guardarle in faccia. Il leghista Salvini potrà anche inveire contro “Mare Nostrum” (io invece mi batto perché torni, e torni come operazione umanitaria europea nel contesto di un’iniziativa più ampia) e potranno fargli corona e coro altri cinici capi partito e qualche battutista da comizio, ma vorrei vederli, tutti costoro, picchiare con il calcio del fucile o con l’arpione sulle mani di una donna o di un ragazzo che si aggrappano a una nave, militare o mercantile che sia, per scampare alla deriva mortale di un barcone malmesso o di un gommone sgonfio… Vorrei vederli, sulla costa turca o su quella libica, gridare in faccia a un profugo siriano o eritreo: «Vattene, vai a morire a casa tua, clandestino!». Vorrei vedere ognuno di noi fare e dire questo, guardando in faccia l’uomo o la donna “irregolari” che regolarmente incontriamo alla stazione, all’angolo della strada, davanti alla chiesa. Già, vorrei vedere. E sono davvero stanco e indignato di dover invece continuare a vedere la brutale complicità di fatto tra i trafficanti di esseri umani e quelli della “porta chiusa” (che, capovolgendo le argomentazioni, osano accusare chi non lascia morire le persone di fare la cosa sbagliata…). Altro che chiacchiere: bisogna guardare negli occhi le persone, e riconoscerle. Perché ogni regola è fatta per loro, per noi, e non viceversa. Solo se si parte dalle persone è corretto l’approccio alla sfida dell’«accoglienza nella legalità» che – da anni – anche su queste colonne ripetiamo essere l’unico stile d’azione utile per non continuare a lastricare la strada dei migranti di sofferenze intollerabili e di lutti che gridano contro la nostra “civiltà”, al cospetto di Dio e dell’umanità di oggi e di domani (tremo all’idea di che cosa verrà scritto di queste vicende, tra cent’anni, sui libri di storia…). E la prima legalità da rispettare – non smetterò mai di ripeterlo – è quella che ci impone di ricordare che chi resiste a una dittatura o a una persecuzione può scegliere di entrare in clandestinità e di diventare “clandestino”, ma nessun essere umano è mai in sé “clandestino” su questa Terra e sotto il cielo di Dio. Verità semplici, forti e coinvolgenti le ho sentite dire da Papi, vescovi e tanti, tanti parroci. Ho ancora nelle orecchie le parole di Francesco, da Lampedusa in poi, e quelle di nuovo scandite in questi giorni dai vertici della Cei, il cardinale Bagnasco e il vescovo Galantino. Non è ancora abbastanza, dice l’amico Dino Grosso. Penso anch’io che non sia mai abbastanza ciò che viene detto, fatto e seminato. Ma questo non mi impedisce di essere consapevole e umilmente orgoglioso per tutto ciò che comunque, qui e ora, anche su questo fronte, viene testimoniato, realizzato e progettato grazie a uomini e donne di Chiesa, e non per “buonismo” ma per giustizia, per fraterno rispetto e per amor di verità.
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