Ma leggetela per favore, la sentenza 601/2013 della Cassazione che i commenti hanno messo con fretta a bandiera, nel bene o nel male, sul tetto della "famiglia gay". Ma cosa c’entra, leggetela, sono tre paginette, e i problemi giuridici non sono neanche difficili da capire. Più difficile e lunga è invece la storia, la storia di un bambino conteso fra i suoi genitori che han cessato la convivenza (di fatto); lei ex-tossicodipendente, ora insieme con una sua ex-"educatrice"; lui musulmano manesco e violento sull’educatrice concorrente. Il problema non è nuovo; è cronaca dolente; è ordinaria fatica quotidiana dei tribunali (minorili, quando i genitori non sono coniugi). Qualcosa ne so, ne ricordo. Il dolore per i casi difficili, l’angoscia di quelli "impossibili". La regola resta sempre una: l’interesse del figlio, il bene del bambino. La lotta fra i genitori, Kramer contro Kramer, vien dopo e non conta, al confronto. Il bene preminente del figlio è nella legge, nella legge nostra e in quella del mondo ("best interest of the child"), e ancor prima è nella natura umana. Non stanno per primi i diritti sul figlio rivendicati da un padre o da una madre, ma i diritti del figlio ad avere un padre e una madre. Persistenti, permanenti, pur quando padre e madre si lasciano, o si scannano in tribunale per il possesso. Lo dico col dolore d’un giudice che rispetta l’altrui dolore: a volte il conflitto d’affidamento dei figli assomiglia a una lite possessoria. Sulla bilancia del giudice le parti gettano gli aspetti reciprocamente negativi, revulsivi. Il giudice ascolta, pensa, decide, e decide fatalmente nella strettoia degli alterni ripieghi di salvamento del bambino da maggior sventura. Ma per il figlio, solo per il figlio, non per il desiderio d’approvazione di chi lo vuole. Che sciocchezza dire l’avallo della famiglia gay. Nel confronto delle negatività ricorrenti, il meno peggio può diventare il meglio praticabile. Il processo, per essere capito, va analizzato dal principio, con gli occhiali giusti puntati sul diritto dei protagonisti. C’entra qualcosa, allora, nella decisione, che la madre sia stata in una comunità per tossicodipendenti e che conviva con una sua "educatrice"? Sì. C’entra qualcosa che il padre violento abbia alzato le mani contro questa donna? Sì. C’entra tutto, si capisce, se un genitore è fatto così o cosà, come vive e cosa fa, ma nella valutazione finale resta decisivo il bene concreto del figlio. Non c’è un giudizio di approvazione o condanna della condotta, ma una valutazione dell’interesse del figlio "anche ciò nonostante", se fosse. Il figlio si affida al genitore, non alla cerchia di questi. Tutto va valutato in ragione del figlio che non può stare stabilmente con entrambi genitori, in vista della sua crescita, della sua educazione alla vita. Quando il giudice decide l’affidamento a un genitore e regola le visite dell’altro genitore, in mutilazione necessaria, non celebra feste, riduce naufragi. I giudici del campo (Brescia) hanno dato il figlio alla madre, e regolato le visite del padre. Al padre le visite sono parse strette, e ha fatto ricorso fino in Cassazione. La Cassazione ha respinto per l’essenziale e unica ragione che le doglianze erano sottratte al suo esame, perché "inammissibili" (va a dire neanche più da giudicarsi) riguardando questioni di merito e di prova, dunque conclusivamente decise a Brescia. Che abbia detto, en passant, che non c’è prova provata di cosa produca la convivenza omo sull’educazione dei bambini, è opinione che col diritto non c’entra. Se azzeccata o cannata non dipende dalla Cassazione. Altra scienza, negli Usa e da noi, attesta il contrario. E noi pensiamo – e anche ieri, qui, è stato ben scritto – che i nostri figli abbiano miglior diritto. Meno male che i fuor d’opera come questo non fanno diritto, né lo prenotano.