Non c’è solo la lettera di quel che la Corte ha detto bocciando martedì sera il quesito dell’Associazione Coscioni («non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili»). Vale infatti anche ciò che non è scritto ma è evidente dalla voce nitida che è uscita dalla camera di consiglio: le sentenze costituzionali vanno prese alla lettera, come un’indicazione di rotta chiara, scritte come sono con parole pesate e pesanti.
Come ha ricordato il presidente Giuliano Amato, scrivendo la legge sull’aiuto al suicidio il Parlamento deve ora tenere davanti agli occhi la (citatissima, ma non altrettanto conosciuta) sentenza 242 datata 22 novembre 2019 con cui la stessa Corte risolse la questione sollevata dal Tribunale di Milano che stava giudicando Marco Cappato – promotore del referendum bocciato – per aver aiutato Fabiano Antoniani (dj Fabo), disabile gravissimo, a uccidersi in Svizzera. Estendendo il principio introdotto nel 2017 dalla legge 219 sulle Disposizioni anticipate di trattamento, per cui un paziente può sospendere «la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale» (il discusso comma 5 dell’articolo 1), assimilate dal legislatore a terapie, la Corte bocciò l’articolo 580 del Codice penale (aiuto al suicidio) «nella parte in cui non esclude la punibilità di chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente».
Un intreccio a maglie strette di criteri per selezionare chi possa chiedere la "morte medicalmente assistita", con l’esplicita intenzione di delimitare rigorosamente il perimetro dell’accesso a una pratica che comunque interviene sul diritto costituzionalmente garantito alla vita. La priorità assoluta della Corte era – ed è – evitare che un’eccezione circoscritta come quella di consentire alle citate condizioni la morte volontaria auto-procurata possa finire per estendersi alle «persone deboli e vulnerabili», come da comunicato diffuso la sera di martedì 15 febbraio.
Per la Corte il punto è dirimente: con riferimento al suicidio assistito e richiamando la pronuncia di un anno prima sulla stessa materia, nella sentenza del 2019 si parla dell’«esigenza di evitare che la sottrazione pura e semplice di tale condotta alla sfera di operatività della norma incriminatrice dia luogo a intollerabili vuoti di tutela per i valori protetti, generando il pericolo di abusi "per la vita di persone in situazioni di vulnerabilità" (ordinanza n. 207 del 2018)». Una tutela assoluta della fragilità che spinse la Corte a precisare che «il coinvolgimento in un percorso di cure palliative deve costituire "un pre-requisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente" (come già prefigurato dall’ordinanza n. 207 del 2018)».
Dunque le cure palliative sono un altro criterio di accesso all’aiuto al suicidio: addirittura un «pre-requisito». Se così non fosse, notava ancora la Consulta, «si cadrebbe nel paradosso di non punire l’aiuto al suicidio senza avere prima assicurato l’effettività del diritto alle cure palliative».
Ma non basta: secondo i giudici è necessario che «il paziente sia stato adeguatamente informato» sulle «possibili soluzioni alternative, segnatamente con riguardo all’accesso alle cure palliative ed, eventualmente, alla sedazione profonda continua». La road map per la legge è questa.