Rispettare i diritti e la dignità delle persone con disabilità passa anche da un adeguato e appropriato uso delle parole. Per questo il Ministero delle Disabilità, su indicazione della titolare del dicastero Alessandra Locatelli, ha recentemente provveduto con un apposito articolo del decreto legislativo n. 62/2024 (in vigore dal 30 giugno dello scorso anno) ad aggiornare la terminologia per le comunicazioni relative alle problematiche dei disabili, puntualizzando la centralità della persona. Un impegno più volte ribadito e ora attuato pienamente.
Cambiare le modalità con cui si parla di disabilità e si comunica con questi soggetti può effettivamente portare a un cambiamento epocale, perché ancora troppo spesso si rappresentano i disabili in una maniera troppo polarizzata, che oscilla tra pietismo ed eroismo. Parole più rispettose dei diritti e della dignità delle persone con disabilità possono contribuire a portare a una migliore inclusività sociale e al superamento dei pregiudizi per arrivare a considerare in queste persone le abilità presenti rispetto a quelle mancanti.
In tal modo si valutano le caratteristiche intrinseche della persona: è questo l’elemento centrale che pone in primo piano la valorizzazione, sul piano esistenziale, della dimensione soggettiva della persona rispetto alla mancanza oggettiva nell’individuo di alcune abilità. Si evidenziano i vantaggi rispetto agli svantaggi. Perché i limiti possono diventare opportunità.
Per questo, secondo le indicazioni fornite dal decreto, il termine – storicamente datato – di “handicap”, ovunque ricorre, negli scritti o nelle dizioni orali, deve essere sostituito dall’espressione “condizione di disabilità” così come anche le parole “persona handicappata”, “portatore di handicap” o semplicemente “disabile” devono essere più propriamente sostituite dal termine “persona con disabilità”.
Un passaggio lessicale che è anche un cambiamento culturale. Il linguaggio non è mai neutro: le parole, oltre che descrivere la realtà, la giudicano e la interpretano. “Comunicare la disabilità” mettendo al centro la persona è anche il titolo di un articolato documento – realizzato lo scorso anno per l’ordine dei giornalisti a cura di Antonio G. Malfarina, Claudio Arrigoni e Lorenzo Sani – che è stato importante fonte di riferimento anche il Ministero. Le persone con disabilità, come si legge nella parte introduttiva del testo, rappresentano «la più grande minoranza sociale al mondo» (quasi 13 milioni in Italia). La guida è nata quindi come strumento prezioso per i giornalisti (e in genere per tutti gli operatori del settore) perché il rispetto nei confronti di queste persone si esprime innanzitutto utilizzando una terminologia adatta e adeguata. Si supera così il rischio che chi scrive, come aveva evidenziato con lucidità alcuni anni fa il giornalista Franco Bomprezzi, preferisca «la coloritura forte di un termine a effetto, immaginando che possa incontrare il favore del lettore», ma contribuendo così «non poco a un’errata percezione della realtà esistenziale delle persone con disabilità».
Un’evoluzione terminologica che è lo specchio di un profondo cambiamento culturale. Come sottolinea Carlo Bartoli, si è partiti «nel tempo da impedito, handicappato, invalido, ritardato, menomato, per arrivare prima a “diversamente abile” e, oggi, a una definizione che ha lo spessore di una conquista, perché mette al contro la persona, con i suoi diritti soggettivi e le libertà fondamentali, non una delle sue molteplici caratteristiche», ma la sua essenza esistenziale: persona con disabilità.
Perché la disabilità non nasce dalle difficoltà e/o dalle carenze insite nelle persone ma dalle barriere ambientali e comportamentali che ne impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione sociale negando la possibilità di vivere alla pari degli altri.