lunedì 27 giugno 2022
Il verdetto della Corte Suprema degli Usa sull'aborto non più diritto federale: la studiosa di bioetica e diritto spiega che ora in Italia si dovrebbe riflettere senza pregiudizi sull maternità
Manifestazione negli Stati Uniti contro la sentenza della Corte Suprema

Manifestazione negli Stati Uniti contro la sentenza della Corte Suprema

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Nel 1973, proprio dalla rivoluzionaria sentenza sull’aborto negli Usa, partì la battaglia per l’aborto legale anche in Europa e in Italia. Oggi è di nuovo da una sentenza Usa che l’interruzione di gravidanza torna al centro del dibattito anche da noi. Un treno da non perdere, sul piano del confronto competente e civile, eppure minato da una parte dall’assoluta indisponibilità a parlarne, dall’altra da atteggiamenti e toni estremi. Laura Palazzani è ordinario di Filosofia del diritto alla Lumsa e vicepresidente uscente del Comitato di Bioetica.

Che cosa dice all’Italia questa riapertura di un dibattito che sembrava del tutto chiuso? Dopo 44 anni di legge sull’aborto è ancora possibile un confronto basato sulle nuove evidenze anche scientifiche?
Riaprire la discussione sull’aborto in Italia rischia di far riemergere schieramenti contrapposti come sta avvenendo in Usa, tra pro-life e pro-choice, e vecchi e mai sopiti ideologismi. La legge 194 ha certamente aspetti “datati”, che potrebbero esigere una ridiscussione sul piano scientifico: in particolare rispetto alle tempistiche dell’aborto, visto il progresso tecnologico che consente la sopravvivenza del feto in modo ben più anticipato di quanto non fosse possibile 44 anni fa: la prospettiva oggi è che il feto “abortito” possa in verità “non morire”, bensì sopravvivere.

Molte cose sono cambiate dal 1978 nella conoscenza della vita prima della nascita, ora sappiamo che esiste un “dialogo” prenatale tra la madre e il feto, i bambini si operano in pancia ecc. Anche senza modificare il piano giuridico, che cosa dobbiamo seriamente affrontare sul piano sociale per un vero supporto alla donna e alla maternità, come del resto recita il titolo stesso della legge 194?


La riflessione sullo statuto della vita nascente è stata approfondita dagli esperti: l’interazione feto/madre è dimostrata sul piano biochimico e psicanalitico, e lo statuto del concepito è stato oggetto di dibattito anche nell’ambito della procreazione assistita. La legge 194 inoltre riconosce dall’articolo 1 che lo Stato tutela la vita umana “dal suo inizio”, che sappiamo coincide con la fecondazione. Oggi la scelta abortiva è anche connessa alla diffusione delle diagnosi prenatali genetiche e alla possibilità di diagnosticare patologie o la predisposizione a patologie incurabili, dunque un supporto genetico, psicologico oltre che etico nella consulenza alla coppia è molto importante, affinché la scelta sia consapevole e responsabile. Certamente fondamentale è anche l’implementazione di assistenza medica e sociale a bambini che nascono con patologie o gravi disabilità: la non accettazione della cosiddetta “vita sbagliata” nasce da un lato dalla pressione sociale verso il “figlio perfetto”, ma anche dal sentirsi soli e incapaci di affrontare percorsi faticosi.



Il dibattito che non c’è: di tutto si può parlare, tranne che dell’aborto. Innominabile persino, come se anche solo provare a migliorare le cose fosse già un tabù. Invece di tornare sulle barricate del 1973, è possibile ritrovarci insieme nel mondo del 2022 a parlarne con modernità?


Penso che sia possibile, l’importante è evitare aprioristici ideologismi. La legge 194 non è ben conosciuta dai cittadini: spesso è citata come “il diritto di autodeterminazione della donna”, mentre a ben vedere la legge ammette la scelta di interruzione della gravidanza in specifiche circostanze e in caso di “serio pericolo per la salute fisica e psichica della donna”. Pone cioè dei paletti alla scelta, considerandola una eccezione al principio generale di protezione del nascituro.



Le femministe storiche che negli anni ‘70 lottarono per una legge sull’aborto sostengono però che mai ne parlarono come di un “diritto”, bensì di una necessità dolorosa, l’ultima spiaggia per casi eccezionali. Eppure oggi molti parlano proprio di “diritto” all’aborto, senza più soppesare il significato delle parole.


Rivendicare un “diritto all’aborto” significa considerare il diritto una pretesa individuale. Tale rivendicazione nega il significato strutturale del diritto che è costitutivamente relazionale: quando si parla di aborto va sempre considerato che la scelta della donna ha implicazioni sul nascituro, che è nel suo corpo ma ha una soggettività, seppur non ancora in grado di esprimere i propri interessi. La legge deve bilanciare necessariamente le istanze di chi chiede l’aborto e di chi lo subisce.



La 194 parla appunto di “scelta” e la garantisce. Ma proprio negli articoli che nella realtà vengono del tutto disattesi.


La legge non “banalizza” l’aborto, riducendolo ad una scelta qualsiasi. La legge parla di “diritto alla procreazione cosciente e responsabile” e istituisce consultori familiari “per far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza”, promuovendo sostegni. Tra le righe si legge l’appello alla responsabilità della scelta della donna, ma anche la responsabilità della società: questi aspetti dovrebbero essere meglio conosciuti e applicati.



I dati sono sconcertanti: negli Usa gli aborti sono quasi un milione l’anno, nel Regno Unito 214mila. In Italia siamo al minimo storico: 66mila (furono 234mila nel 1983). Numeri che comprendono la Ru486 abortiva. C’è da noi una diversa attenzione alla vita nascente? Abbiamo ancora qualcosa da dire con la nostra cultura?


Certamente i numeri elevati colpiscono. Il rischio nella nostra società è la pressione che alcune donne possono sentire ad abortire, non come scelta di libertà, ma come “dovere”, quando un bambino ha gravi patologie. Dobbiamo riflettere sul fatto che la interruzione della gravidanza è una interruzione della vita, verso la quale abbiamo delle responsabilità come singoli e come società.


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