Terapia compassionevole per accompagnare un malato terminale alla morte senza sofferenze inutili, oppure scorciatoia eutanasica per abbreviare la vita di un paziente gravemente affetto da Covid-19? In Francia il dibattuto è apertissimo dopo che il governo ha concesso per decreto, il 28 marzo, l’uso del Rivotril anche a domicilio e nelle case di riposo, non più solo negli ospedali. Il Rivotril è un farmaco contro l’epilessia usato anche nelle terapie palliative per malati ormai in fin di vita nella sedazione cosiddetta "terminale", che toglie cioè i sintomi più angosciosi (il dolore e, nel caso del coronavirus, la "fame di aria" che si scatena insostenibile quando la morte è prossima) accompagnando alla morte nel sonno e senza sofferenza. La sua somministrazione però è stata sinora limitata all’ambito ospedaliero, per garantirne il pieno controllo da parte di medici competenti. L’estensione all’ambito domestico e assistenziale è motivato per le autorità di Parigi dall’emergenza nella quale versano gli ospedali, che – come in Italia – non riescono ad assorbire tutti i pazienti bisognosi di cure dopo il contagio da Covid-19 e che quindi costringono molti di loro a dover restare a casa o nella Rsa in cui sono ospitati, nel caso degli anziani. Quando la situazione si aggrava al punto da prospettare una morte ormai certa è dunque possibile ora iniettare il Rivotril, sempre sotto controllo medico. Resta il dubbio, in queste condizioni estreme, sulla effettiva valutazione del singolo caso, oltre che sul fatto che non lo si lasci arrivare al capolinea senza aver tentato tutto ciò che era possibile, incluso il ricovero.
La polemica in Francia
L’uso per pazienti Covid non ospedalizzati del farmaco che accompagna alla morte con la "sedazione profonda e continua" viene difeso dal presidente dei geriatri francesi Olivier Guerin («l’uso del Rivotril non è affatto facilitato, bisogna rispettare lo stesso protocollo, solo che sinora lo si poteva somministrare solo in ospedale») e avversato dai medici di Jeune Médecins, sindacato che ha chiesto l’intervento del Consiglio di Stato perché «la somministrazione di questa molecola a un paziente affetto da Covid-19 ha per effetto di portare a una sedazione terminale che provoca la morte». La polemica in Francia non è nuova: attorno all’interpretazione della legge Claeys-Leonetti, che parla di tutela della dignità del morente, si è acceso spesso il confronto oltralpe tra chi spinge per soluzioni che introducano forme di eutanasia senza definirle tali e altri che, sul versante opposto, chiedono di evitare ogni pratica che possa finire per ampliare le zone di discrezionalità.
I criteri per un giudizio etico
Il giudizio etico sul possibile uso del Rivotril nei casi di pazienti affetti da coronavirus è però piuttosto chiaro e ci permette di sottrarci alle manipolazioni strumentali delle informazioni in arrivo dalla Francia, per cui l’uso del farmaco anti-epilessia sarebbe il segnale che per i malati di coronavirus si potrebbe contemplare una procedura più spicciativa: la sedazione terminale infatti «è ammissibile nelle terapie palliative solo per pazienti la cui situazione sia ormai irrimediabilmente compromessa – commenta il cancelliere della Pontificia Accademia per la Vita don Renzo Pegoraro –. Nei casi di coronavirus la sedazione può intervenire per prevenire la morte per soffocamento, ma esclusivamente nei casi in cui la morte sia ormai prossima». Attenzione però a introdurre standard che finiscono per catalogare i pazienti a priori: «La valutazione va fatta caso per caso – spiega Pegoraro –sempre garantendo la piena dignità del paziente al quale, quando ormai non c’è più nulla da fare, vanno risparmiate sofferenze inutili, ma senza l’intenzione di accorciarne la vita. È sempre una questione di proporzionalità delle cure, cercando il bene del malato nel suo complesso. E il caso di ogni persona è diverso da qualunque altro».
Queste che sono le condizioni etiche determinanti per decidere se e come praticare la sedazione palliativa profonda valgono a maggior ragione per i casi di Covid-19 dove ci sono esigenze di «accompagnamento del paziente». Ogni uso al di fuori dell’ospedale deve quindi ricalcare l’identico percorso decisionale ed escludere ogni forma di abbandono o di selezione dei pazienti più fragili perché anziani o in condizioni più problematiche. L’emergenza coronavirus, in altri termini, può insegnare sul campo un uso più esteso delle cure palliative, che possa umanizzare il più possibile la morte inevitabile di un paziente, ma non certo rendere più sbrigativa la procedura che conduce al decesso, o abbreviarne il decorso. Come ribadisce più volte Pegoraro, «occorre la massima attenzione a valutare la situazione del singolo paziente evitando ogni forma di possibile abuso».