Il 30 agosto del 1954, il parlamento francese bocciò la ratifica del Trattato sulla Comunità europea di difesa (Ced), sottoscritto due anni prima dagli stessi sei Paesi già firmatari della Comunità del carbone e dell’acciaio (Ceca, 1951) e fondatori della futura attuale Unione (Italia, Francia, Germania e Benelux). La storica intesa, rimasta purtroppo sulla carta, fu raggiunta fra gli ex-nemici a soli sette anni dalla fine della guerra. Essa sanciva la nascita non solo di un embrione di esercito europeo, ma anche delle basi per una politica estera comune, in grado di dare all’Europa l’adeguata statura internazionale di cui oggi tanti lamentano la mancanza. Quella votazione, che vide saldarsi i nazionalisti seguaci di De Gaulle e i comunisti stretti alleati dell’Unione sovietica, dopo quasi 70 anni pesa ancora come un macigno sulla capacità del Vecchio Continente di parlare con una sola voce sul palcoscenico mondiale. Lo si è constatato una volta di più in questi due mesi e mezzo di “guerra di Gaza”, e a quasi due anni dall’inizio della “guerra di Ucraina”.
Sarebbe scorretto, e anche ingeneroso, negare gli sforzi che le istituzioni Ue e diversi governi hanno prodotto, per concordare risposte unitarie ed efficaci alle nuove emergenze belliche, specie nel caso dell’invasione russa ai danni di Kiev. Ma la realtà conferma purtroppo in larga misura la definizione ricorrente dell’Europa come gigante economico (per altro in declino) e nano geopolitico. Tra pochi giorni si aprirà per l’Unione un nuovo e delicatissimo anno, che vedrà nel primo semestre la presidenza di turno del Belgio e nel secondo quella della “pecora nera” Ungheria. Al centro, tra il 6 e il 9 giugno, il rinnovo del Parlamento, con quasi mezzo miliardo di cittadini chiamati a pronunciarsi in prima persona. Su quali poste in gioco? Prioritariamente, si deve temere, sugli equilibri politici interni ai singoli Stati membri e solo in seconda battuta sul destino comune dei Ventisette.
Eppure, senza voler cedere all’enfasi, mai come questa volta l’appuntamento si presta a essere definito storico. Due, sembrano a chi scrive, i rischi contrapposti: da un lato l’affermarsi di forze nazionaliste nel senso più deteriore, dichiaratamente centrifughe, nemiche dell’idea stessa di Europa unita; dall’altro il prevalere di impostazioni elitarie e in definitiva ideologiche, disposte a sacrificare le specificità e le differenze culturali sull’altare dell’efficienza e dell’omologazione a ogni costo. Nata come unione di popoli diversi e con pari dignità, la Ue deve guardarsi dalla tentazione di ingabbiare e azzerare le differenze.
Si sente invero, un po’ dovunque, la mancanza di voci autorevoli, in grado di aiutare gli elettori a percepirsi, anzitutto spiritualmente, come un’unica entità, con
un ruolo che viene dal comune passato e il cui futuro dipende dalla disponibilità a collaborare per i veri e grandi traguardi scritti insieme settant’anni fa: tutela della vita umana e della dignità di ogni persona, giustizia e progresso sociale, pace e collaborazione internazionale, sulla base del rispetto reciproco e della solidarietà con i più poveri. L’augurio finale all’Europa da parte di questa rubrica, che oggi si congeda dai lettori di “Avvenire”, è che queste voci salgano alte e convincenti nei prossimi mesi. Perché, come ha ricordato di recente la studiosa Danièle Hervieu-Légier, spiegando l’attaccamento delle popolazioni europee, per quanto secolarizzate, al proprio patrimonio religioso, «se non sappiamo da dove proveniamo e verso dove andiamo, è difficile definire chi siamo».
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