«Rispetta chi non la pensa come te». Facile da dire, difficile da fare, soprattutto sui social. Eppure era il 1973 – quando non esistevano né il web né i social e nemmeno i talk show televisivi – quando la fondazione privata «Pubblicità progresso» lanciò una campagna per promuovere il rispetto dell'opinione altrui. Nei cartelloni in bianco e nero lo slogan «Rispetta chi non la pensa come te» era accompagnato da un disegno che ritraeva un uomo al quale una mano chiudeva la bocca. Sopra c'era la scritta: «Lascia parlare anche chi ha torto. Sei proprio sicuro che ha torto?». Sorvoliamo sul fatto che sarebbe stato meglio «abbia torto» e concentriamoci su un punto. Dando per acclarato che la libertà di pensiero e di opinione sono alla base di ogni democrazia, dovremmo chiederci: un invito del genere ha ancora valore oggi? E se sì, ha valore nel digitale e sui social dove (a differenza di quello che ogni tanto crediamo) ci sono una tale varietà di opinioni da darci l'idea di generare più confusione che ricchezza?
Chiunque cerchi di affrontare una discussione sui social su certi temi sensibili ha scoperto sulla propria pelle quanto non solo sia faticoso discutere ma anche quanto siamo spesso impreparati a farlo. Il filosofo Bruno Mastroianni da anni cerca di insegnare quella che chiama «la disputa felice». E ci avverte: «Tendiamo a giudicare i confronti molto peggio di quanto non siano, perché ci aspettiamo che assumano la forma di relazioni angeliche tra intelletti superiori capaci di fare tutte le mosse adeguate e rispettose per capirsi e trovare una mediazione». Peccato che «ogni tipo di articolazione del dissenso è sempre sbilenca, imperfetta, farraginosa e faticosa».
C'è un altro tassello importante di cui dobbiamo tenere conto e riguarda la moderazione dei contenuti da parte dei social, dei siti e dei forum. Ciò che scriviamo va moderato? E se sì, come? L'esperto Mike Masnick ci avverte che nella moderazione occorre tenere presenti diversi fattori: «Ci sono problemi legati alla responsabilità legale di ciò che ospitano le piattaforme e i siti, altri che implicano il tentativo di mantenere il confronto vivo e altri ancora che hanno a che fare con quale comunità vogliamo». Poi ci sono quelli convinti che qualsiasi forma di moderazione dei contenuti sia censura o comunque un atto contrario ai principi della libertà di parola. Eppure, secondo Masnick, «la moderazione dei contenuti consente di fatto una maggiore libertà di parola». Possibile? «Un sito web che non ha moderazione dei contenuti e consente a chiunque di pubblicarne si riempirà di spam, cioè di messaggi spazzatura». Nessuno di noi vuole avere i propri spazi inquinati dallo spam «perché è impossibile comunicare quando il confronto è continuamente interrotto e inquinato da certi messaggi». Quindi, secondo Masnick, il punto non è tanto se filtrare i contenuti «ma quali siano i limiti nei quali farlo». Moderare non significa tanto e solo “censurare” «ma rendere le piattaforme e gli spazi digitali più abitabili. Senza la moderazione, le piattaforme sarebbero meno utilizzate e le persone sarebbero meno propense a esprimersi. Molti infatti rinunciano ad esprimersi perché non vogliono dover discutere con persone irrispettose, aggressive e ottuse».
Da quella campagna di Pubblicità progresso sono passati 49 anni, forse è venuto il momento di averne una nuova e aggiornata al digitale. O almeno di discuterne.
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