Webinar, riunioni, meeting, videocall... Possiamo chiamarli in tanti modi, ma il risultato non cambia: gli incontri digitali e le riunioni online sono ormai parte delle nostre vite. Che si facciano su Zoom, Teams, Skype, Google Meet, Gotomeeting o Gotowebinar alla fine cambia poco. Complice la pandemia, abbiamo scoperto tutti che sono molto pratici, evitano gli spostamenti e abbattono i costi. Per farli non servono stanze attrezzate, non servono caffè o panini né tantomeno alberghi o trasporti da prenotare (e pagare) per chi viene da fuori. In più qualunque relatore può partecipare a più incontri in un giorno, ottimizzando il suo tempo e abbattendo i costi della sua presenza.
Basterebbero queste poche righe per farci capire che, anche quando la pandemia sarà finita, tutto questo non sparirà. Anzi, il numero delle riunioni online potrebbe addirittura aumentare. Sono troppo comode. E sono troppo economiche perché si decida di farne a meno, sostituendole tutte con quelle «in presenza».
Se i vantaggi (soprattutto economici) delle «video riunioni» sono molto chiari e tangibili, ben più difficile è misurare i loro eventuali effetti negativi. In America ci stanno provando e la chiamano «Zoom fatigue» (fatica da Zoom) prendendo come esempio la popolare piattaforma di video riunioni, esplosa durante la pandemia. Come ha spiegato al National Geographic il professor Andrew Franklin, associato di cyberpsicologia alla Norfolk State University della Virginia, «anche se parliamo di un mezzo limitato a un video e a poche ovvie distrazioni, ci sorprenderebbe vedere quante difficoltà pongano le videochiamate alla nostra psiche». Per esempio, il fatto di non potere cogliere i segnali corporali dei nostri interlocutori, ci costringe a un super lavoro per cercare di comprendere ciò che davvero ci stanno comunicando. Per non parlare delle difficoltà di ricezione dell'audio o del video e della continua esposizione/esibizione del proprio io e del proprio ambiente (spesso casalingo), con conseguenti distrazioni per chi guarda ed esami (non palesi) su ogni soggetto ripreso («ma come si veste a casa?», «ma dove vive?», «ma davvero si collega dalla cucina?»... e così via).
Qualche giorno fa, Microsoft, proprietaria di Teams (altra popolare piattaforma per le video riunioni), ha condotto uno studio su un gruppo di persone «che hanno partecipato a meeting in video mentre indossavano apparecchiature per monitorare l'attività elettrica del loro cervello». I risultati sono stati resi noti ieri. Ciascuno dei volontari – come ha spiegato Michael Bohan, che ha supervisionato il progetto – «ha partecipato a due diversi blocchi di sessioni di incontri. Nella prima sessione, la metà dei soggetti ha partecipato a quattro riunioni consecutive di mezz'ora (per un totale di due ore) mentre l'altra metà ha partecipato a quattro incontri di mezz'ora intervallati però da pause di 10 minuti. La settimana successiva, i gruppi si sono scambiati».
Il risultato dello studio non sorprende ma è la conferma scientifica di un disagio che ognuno di noi ha provato in prima persona. «Durante gli incontri senza interruzioni, le persone hanno mostrato livelli più elevati di stress. Mentre chi ha avuto la possibilità di fare pause ha mantenuto lo stress su medie molto più basse».
Ad una conclusione simile è arrivata anche Google che ha appena annunciato dei nuovi cambiamenti alla sua piattaforma Google Meet «per rendere le riunioni online più inclusive, meno stressanti e più efficaci».
Insomma, siamo alle solite: se vogliamo che gli strumenti digitali siano davvero utili e non soltanto comodi o convenienti dobbiamo imparare tutti ad usarli nel migliore dei modi. Cioè, senza dimenticare mai che al centro ci sono e ci devono sempre essere le persone.
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