L’hanno definita “nature restoration law” o, in modo più sbrigativo, “renaturation”. In italiano suona un po’ meno accattivante e un tantino burocratica: legge sul “ripristino della natura”. In estrema sintesi, è il tentativo di “riparare” entro il 2030 una quota del 20 per cento di territori terrestri o acquatici danneggiati dall’uomo, mettendo in sicurezza ecosistemi a rischio, biodiversità e produzioni alimentari. Al Parlamento europeo, nelle scorse settimane, c’è stata sul tema una battaglia campale, combattuta in buona parte anche per ragioni politiche che con l’ecologia hanno poco a che fare. Alla fine, con una raffica di votazioni sul filo del rasoio e numerose modifiche che ne hanno parecchio alleggerito l’impatto, è stato approvato un testo base che, non si sa bene quando ma si spera entro la fine della legislatura, dovrebbe ottenere il sigillo di legge europea valida in tutta l’Unione.
Associazioni ambientaliste, organizzazioni agricole, enti locali, Ong di varia ispirazione, cacciatori, governi centrali ed esperti delle più diverse discipline scientifiche: in tantissimi si sono confrontati con toni accesi su una materia complessa, che l’acuta sensibilità “green” dominante impone di seguire con attenzione. Ogni intervento in materia, in effetti, comporta conseguenze economiche ed ha ricadute sulle condizioni di vita di fasce consistenti di popolazione.
Nel gran discutere di natura da far rifiorire, è sfuggita però al grande pubblico una novità “eco-friendly” molto concreta e di rapida attuazione, annunciata a Bruxelles quasi in contemporanea al voto di Strasburgo. Nell’ambito della lotta agli sprechi nel settore alimentare, la Ue imporrà agli Stati membri di tagliare, sempre entro il 2030, il 10 per cento degli scarti causati dalla produzione e trasformazione e ben il 30 per cento pro capite nelle vendite al dettaglio e nel consumo, tra ristoranti, servizi alimentari e famiglie. Anche non volendo considerare il risvolto etico della decisione - il cibo che finisce nella spazzatura dell’Occidente grida vendetta al cospetto della fame nel resto del mondo - il beneficio in termini ambientali di questa decisione è sorprendente.
È stato infatti calcolato che la massa dei rifiuti alimentari prodotti nei 27 Paesi membri ogni anno sfiora i 60 milioni di tonnellate, pari a oltre 130 chili per abitante. Ne conseguono una perdita economica di 132 miliardi di euro e - ecco la notizia inattesa - l’emissione di 252 milioni di tonnellate equivalenti di anidride carbonica, pari al 16 per cento di tutta la CO2 causata dal settore alimentare della Ue. Quando i tagli andranno a buon fine, anche il gas serra nell’atmosfera si ridurrà sensibilmente, con ovvia ricaduta positiva per ambiente e clima.
Ma a proposito di “natura” da salvaguardare, amareggia constatare come ormai gli unici ambiti in cui la cultura dominante in Europa insegua costantemente nuove frontiere, incurante delle conseguenze e delle ricadute psicologiche e sociali, siano la vita umana e la famiglia. Qui il principio di precauzione e le “valutazioni di impatto” non entrano mai in gioco. Due padri o due madri per lo stesso bambino, a prescindere da come sia stato fatto nascere, vanno considerati comunque “naturali”. Prevalgono sempre l’individuo singolo e i suoi “diritti” e guai a chi non si allinea. Probabilmente ci vorrà tempo prima di poter misurare gli effetti di questi strappi. E allora forse non sarà facile ripristinare la natura umana danneggiata. La curva demografica già manda segnali fortissimi.
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