Al passaggio delle prime nuvole, al principio della stagione delle piccole piogge, quando i torrenti sono solo sassi e la vegetazione della savana è rinsecchita, con la sabbia che mulina nell'aria trasportata dal vento, assieme a rotolanti roveti irti di spine che neanche le capre e i cammelli oserebbero mangiare più, i pastori sudanesi di etnia dinka, nuer, bongo e jur alzano gli archi al cielo e tendono le loro corde, aprendo il loro cuore alla speranza. Aspettano che la luna, complice del rito, si nasconda dietro le nubi. E pronte saranno le frecce a scoccare contro la volta celeste, nel momento esatto dell'ultimo baluginare di luce. Un rito ancestrale, propiziatorio che ha lo scopo di liberare il cielo dalla gravidanza della pioggia.
Acqua per i campi. Acqua per la vita. Acqua per fecondare la terra madre. Acqua fondamentale per i popoli del bush, la boscaglia, che vivono attingendo da attività elementari come la coltivazione dei cereali. Perché il bestiame è sacro, è prezioso, e lo si può sacrificare soltanto in determinate, rare occasioni o cerimonie. Ma le frecce, da qualche tempo, non riescono a raggiungere il cielo e la savana e il bush si inaridiscono sempre più. La pioggia resta prigioniera nel ventre delle nubi, e la terra si spacca sotto l'implacabile sguardo del sole. Le sementi non germinano, ma si seccano nei solchi. Diventano cibo per insetti e piccoli roditori. Il deserto avanza e le popolazioni di questi e altri luoghi primordiali vanno a cercare altrove cibo e acqua. Un film già visto, dirà qualcuno. Infatti lo è.
Carestia, ma anche guerre e poi eventi climatici che stanno intensificandosi e su cui pesano i nostri moderni stili di vita stanno peggiorando le crisi umanitarie in corso, e la fame nel mondo è di nuovo un flagello. Stiamo tornando indietro invece che verso un futuro meno affamato. A dircelo, a metà settembre, come un pugno nello stomaco, è stato un rapporto redatto dalle Nazioni Unite sulla malnutrizione planetaria, tornata ad essere «grave emergenza alimentare». L'esatto contrario degli obiettivi che la stessa Onu aveva promesso di raggiungere entro il 2030: «Sradicheremo definitivamente la malnutrizione». Invece, la stima è che siamo tornati indietro di almeno dieci anni.
Anni di parole, di promesse, di convegni internazionali, di pianificazioni e obiettivi da raggiungere nel tal o tal altro quinquennio mondiale, di obiettivi del millennio; soldi spesi in quantità inimmaginabile in relazioni, summit, studi, viaggi intercontinentali, alberghi dove ospitare il mare magnum di esperti, studiosi e ricercatori impegnati nella lotta perpetua per sradicare le piaghe, come la fame, che affliggono l'essere umano nelle realtà più sperdute e povere della Terra; tutto questo spesso risulta un vuoto bla-bla. Le promesse si sono rivelate fasulle e nella pentola non è rimasto quasi più nulla da mangiare per un essere umano su nove che popola il Pianeta.
Biafra 1968, Sahel 1972-1975, Etiopia 1973-1974, ancora Etiopia 1984-1985, Mozambico 1986, Sudan meridionale 1984-1985, ancora Sudan meridionale 1988-1990, e ancora Sudan meridionale, Mozambico, Somalia 1992-1993, Angola, Liberia, Sudan meridionale 1994. Sono solo alcune delle gravi carestie che hanno colpito il continente africano nel passato. Qualcuno, dopo le promesse mancate, e guardando in faccia alla realtà, si domanderà: stiamo sbagliando qualcosa?
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