Una delle cose più sconcertanti e crudeli di questo difficile periodo è l'improvviso divieto di affiancare e assistere le persone che necessitano di un ricovero in ospedale. Improvvisamente la malattia, che è nella vita di ciascuno fonte di smarrimento e inquietudine, si colora di una nuova paura: quella della solitudine e dell'abbandono. È una paura che pesca nella parte più antica e profonda di noi, proprio perché la malattia ci rende vulnerabili e ci ricollega con i nostri vissuti infantili; in questa fragilità abbiamo bisogno di avere vicino una persona che testimoni, con la sua presenza affettuosa, che siamo persone uniche, speciali per qualcuno, e non solo dei pazienti o dei numeri. La questione si fa ancora più delicata per le persone anziane e ci obbliga a guardare in faccia qualcosa di cui forse non avevamo piena consapevolezza. Il nostro mondo ci ha insegnato ad avere paura di stare vicino alle persone che muoiono: spesso preferiamo immaginare che saranno persone "esperte" ad assistere i nostri anziani morenti, evitandoci dolore e spavento. Ora però che non ci è data la possibilità di scegliere, cominciamo ad intuire che davanti alla morte non abbiamo bisogno di rimozione, ma di poter vivere tutti quei passaggi che ci permettono di prendere davvero congedo dalle persone care.
Chiunque abbia voluto bene a una persona anziana sa dentro di sé che starle vicino nel percorso verso la morte può riservare dei momenti di speciale ricchezza. Proprio ieri un'amica mi raccontava di avere passato molti mesi ad accudire il padre anziano e malato, e di avergli dedicato tutto il tempo che le era possibile: stargli vicino, mi ha confidato, è stato per lei un grande dono, la possibilità di incontrarlo di nuovo e ad una profondità diversa, che ha permesso loro di separarsi in pace. Anch'io porto nel cuore il ricordo dei momenti di vicinanza con i miei genitori ammalati, momenti che avrei voluto più numerosi per la ricchezza che mi regalavano. Ho sperimentato che il valore di questi momenti non è legato alle parole che si riescono a dire: ciò che li rende preziosi è la concretezza della presenza, la possibilità di testimoniarsi reciprocamente affetto attraverso i gesti essenziali della cura.
Il rapporto genitori/figli è un rapporto sempre complesso, frutto di una grande vicinanza che troppe volte può diventare nel tempo una sofferta distanza, talvolta impossibile da colmare. Le parole non sono capaci di esprimere compiutamente questo legame, né di ripararlo quando è stato troppo profondamente ferito, ma la cosa che sempre e per tutti rimane possibile
sono i piccoli gesti del prendersi cura l'uno dell'altro: genitori che accudiscono i figli, figli che accudiscono i genitori, anche al di là delle incomprensioni e dei conflitti che la vita può avere creato. Lo scambio di affetto con la persona anziana passa da un prendersi cura concreto, cui può rispondere l'umiltà e il coraggio di lasciarsi accudire, consegnandosi inermi e con fiducia nelle mani di persone più giovani. Quando ripenso a mia madre, mi è caro nel ricordo l'ultimo abbraccio senza parole; ormai fragilissima, questa donna da sempre molto forte si è appoggiata a me con abbandono per farsi sostenere. Avverto ancora il suo contatto, il suo abbandonarsi, come un messaggio silenzioso di cui le sono immensamente grata. Averle potuto stare vicino è stato ricevere il dono silenzioso della sua mano nelle mia, perché quando sarà il momento io abbia la speranza di poter a mia volta abbandonare la mano in quella dei miei figli, nella preziosa catena delle generazioni.
Non poter assistere i nostri anziani nel momento della morte ci sottrae la possibilità di prepararci a morire con la speranza di non essere lasciati soli; non rimanere loro vicini rischia di interrompere un momento cruciale del passaggio di testimone tra le generazioni, che è invece necessario per mantenere viva la speranza.
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