martedì 4 dicembre 2012
A proposito del senso di responsabilità, la cui assenza è sempre più diffusa nelle nostre società atomizzate e rette da rapporti meccanici, previsti e prevedibili, al punto che se per strada vediamo qualcuno in difficoltà, il primo pensiero che ci passa per la testa è chiamare un'ambulanza o la polizia, almeno quando ci rimane un po' di senso civico. Nel film del regista coreano Kim Ki Duk, Primavera, estate, autunno, inverno e ancora primavera — favola morale immersa in una foresta, dentro una casa-isola affacciata su un laghetto dove vivono due monaci, un anziano maestro buddhista e il suo giovanissimo discepolo — accade un fatto estremo, che impone una presa di coscienza radicale. Le stagioni che fin lì hanno scandito la vita su quell'eremo galleggiante, rischiarato da una spiritualità profonda, rigorosa e libera, interiore e concreta, quella di esseri umani “interi”, vengono sconvolte e come arrestate, raggelate, da una terribile tempesta. Un giorno, il vecchio maestro scopre che il suo discepolo è diventato un assassino. E alla fine, quando la giustizia umana si è compiuta, il maestro si dà fuoco, secondo il severo, tragico rituale dei bonzi. Non perché pensi di avere sbagliato, ma perché l'aberrazione del discepolo ha reso vana la sua esistenza di maestro.
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