Si dice che nel 2030 la metà della popolazione statunitense sarà obesa. È un bel problema, soprattutto per l'aumento delle malattie croniche che ne consegue. Sarà anche per questo che negli Stati Uniti sono nati programmi come My 600-lb Life (“La mia vita di 600 libbre”), in onda qui da noi su Real Time (canale 31 del digitale terrestre e 160 di Sky) con il titolo Vite al limite. Si tratta di un reality (da cui sono derivate anche delle versioni nostrane) che da sette stagioni racconta le storie di pazienti affetti da una grave obesità e non più in grado di vivere una vita normale. Va in onda più volte la settimana occupando, ad esempio ieri e sabato, anche tutta la prima serata della rete del gruppo Discovery. Ogni episodio segue per un anno la vita di una di queste persone che tenta di ridurre il proprio peso attraverso una dieta e l'ausilio a un certo punto di un bypass gastrico eseguito dal chirurgo iraniano Younan Nowzaradan. Non sappiamo a quale peso in rapporto alla corporatura scatti l'obesità patologica, ma qui si parla di persone che superano i 250 chili fino ad avvicinarsi in qualche caso ai 400. Per cui, più che sul problema sanitario conseguente alla diffusione dell'obesità, Vite al limite sembra puntare sull'effetto choc mostrando persone totalmente deformate nel fisico. C'è anche da chiedersi cosa spinga i protagonisti del reality a mostrarsi così, senza pudore, e accettare di convivere con le telecamere per molti mesi. Da una parte ci sarà senz'altro la sfida con se stessi, il mettersi in gioco pubblicamente per vedere di riuscire nell'intento. Dall'altra, più prosaicamente, ci sarà la questione economica visto che negli Stati Uniti la sanità è a pagamento e interventi come quello per la riduzione dell'intestino sono sicuramente costosi. Al di là di questo c'è comunque una storia da raccontare, spesso frutto di un'infanzia difficile. C'è uno sviluppo psicologico dei protagonisti, che in alcuni casi volge al positivo con il dimagrimento e altri al negativo con l'insuccesso nella dieta. Ci auguriamo che l'interesse per la storia, da parte degli autori e del pubblico, prevalga sempre sulla curiosità per condizioni che il più delle volte hanno del tragico.
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