Se non capite il cosiddetto «mondo digitale» né tantomeno quello dei videogiochi, fidatevi di un signore di 72 anni come Steven Spielberg e andate al cinema a vedere il suo ultimo film, Ready Player One. La pellicola è tratta dall'omonimo romanzo del 2010 di Ernest Cline. All'inizio vi sembrerà di essere stati catapultati nel videogioco di un vostro nipote. Tutto sembra andare troppo veloce. Troppi suoni, troppe immagini, troppe citazioni. Ma è proprio grazie a queste ultime che, magari, comincerete a sentirvi un po' meno estranei. (Ri)troverete King Kong, riferimenti a Shining, Alien, Star Trek, Star Wars e Ritorno al futuro. E la musica? Da Jump dei Van Halen a Stayin' Alive dei Bee Gees sarete immersi negli anni 80, il che vi farà sentire automaticamente più giovani di oltre 30 anni.
Ciò che conta però è soprattutto altro. Perché il cinema di Spielberg punta sempre al grande pubblico (il film ha già incassato 109 milioni di dollari) ma non dimentica mai il «dovere» di lasciare un segno, una frase, un'idea. Una morale.
Certo, i «sapientoni» sorrideranno di certe affermazioni contenute nel film (tipo: «per quanto la realtà possa essere tremenda è l'unico posto dove si può mangiare un pasto decente») ma la storia funziona. Siamo nell'anno 2045 (e – sorpresa – non esistono cellulari) la vita sulla Terra è tutt'altro che progredita. Anzi, per sfuggire all'orrore quotidiano le persone si immergono con i visori per la realtà virtuale nel mondo digitale di Oasis (molto simile a quel Second Life, che andava di moda 15 anni fa), dove possono assumere qualunque sembianza, ruolo o etnia per prendere parte a numerose attività: giocare, fare amicizia, combattere... Chi perde le sfide nel gioco, però, perde tutti gli equipaggiamenti e i superpoteri per cui ha lottato e pagato fin lì. E la disperazione dei giocatori è reale. E continua anche a visori abbassati.
Il giovane Wade Watts, che è un giocatore di altissimo livello di Oasis, tenta di vincere una serie di sfide create dall'ideatore del gioco digitale, morto da poco. In palio c'è il possesso del mondo virtuale e l'eredità miliardaria del suo creatore.
Non è un caso che Wade su Oasis abbia assunto il nome di Parzival (Parsifal). Anche lui infatti sarà chiamato sulla «via della saggezza» e, a suo modo, anche lui va in soccorso di una specie di re Amfortas che gli consegnerà il regno del Graal.
La vera sfida di fatto è tra Parzival e i suoi amici «cavalieri» e una perfida multinazionale che usa ogni mezzo pur di prendersi tutto, non accontentandosi della fetta di mondo che ha già. Da una parte ci sono questi ragazzi divertenti, coraggiosi e solidali, dall'altra un adulto (e i suoi soci, che però rimangono sullo sfondo) obnubilato dal potere e dall'ingordigia. E più scorre il film e più questo gruppo di ragazzini ai quali nessuno darebbe in mano niente di valore (nel 2045 come oggi) dimostra una saggezza e una capacità di governare il mondo (seppur virtuale) di Oasis da far impallidire tanti adulti in circolazione.
Può darsi che ad una certa età un film del genere possa non piacere. Ma dentro ci sono pillole di saggezza. Vi aiuterà a capire perché alcune persone, come l'inventore di Oasis, pur non riuscendo a relazionarsi in maniera "normale" con gli altri esseri umani sono comunque scrigni pieni di sorprese. Vi aiuterà ad avere più fiducia, molta più fiducia nei ragazzi, nella loro creatività e nel loro modo (a volte anche un po' confusionario) di risolvere i problemi. E magari vi aiuterà a capire che anche dai videogiochi (e dai videogiocatori) si può imparare molto. E che persino nel mondo virtuale si possono trovare «buone cause, amici e persino l'amore». A patto di non dimenticarsi mai – come recita il film – che «la realtà è l'unica cosa che è reale». Per questo una delle prime decisioni che prendono i ragazzi è chiudere il mondo virtuale di Oasis due giorni la settimana. Cosa che nessun adulto a capo di una multinazionale farebbe mai.
© Riproduzione riservata
ARGOMENTI: