Non ci sono solo i commissari irrimediabilmente gaffeur, come il tedesco Günther Oettinger e il suo capo lussemburghese Jean-Claude Juncker. C'è tutta un'Europa ricca e scaltra, quella dell'"asse renano" Parigi-Berlino e del triangolo scandinavo, attivamente impegnata a offrire pretesti ai risorgenti nazionalismi e ai sovranisti di ogni risma, a cominciare da quelli piuttosto ondivaghi e di casa nostra. E' l'Europa di chi pretende sempre rispetto delle regole da tutti, ma non esita a concedersi vistose e, come vedremo, costose eccezioni, ricorrendo a clausole di salvaguardia previste dai Trattati solo in presenza di gravi emergenze.
È l'Europa che silura silenziosamente Schengen, l'accordo sulla libertà di movimento e di soggiorno all'interno dell'Unione, al quale aderiscono oggi 22 Stati su 28 più quattro extra-Ue. Nell'ambito della cosiddetta "area Schengen", come è noto, non dovrebbero operare controlli alle frontiere interne, salvo casi assolutamente eccezionali. Cosicché circa 400 milioni di cittadini europei, in teoria, possono circolare senza impacci, all'interno di un perimetro di 50mila chilometri di confini esterni considerati comuni.
Ma terrorismo e "minaccia" migratoria negli ultimi anni hanno cambiato lo scenario. Prima gli attacchi in alcune capitali e le stragi islamiste, poi le ondate dei profughi e delle vittime di guerre e miseria hanno spinto diversi governi a reintrodurre controlli e barriere ai posti di frontiera interni. Le regole comunitarie consentono di sospendere lo spazio Schengen solo come extrema ratio, in presenza di gravi pericoli per la sicurezza interna e per brevi periodi, comunque non superiori a sei mesi. Modalità e tempi dei controlli, inoltre, devono essere proporzionate ai rischi prevedibili.
Accade invece da ormai due anni che sei Paesi, con proroghe successive, hanno congelato del tutto Schengen, impedendo il libero passaggio alle loro frontiere. Si tratta di Francia, Austria, Germania, Danimarca, Svezia e Norvegia. Tutte e sei "recidive" da ben più di un semestre. Tanto è vero che la corsa settimana il Parlamento Europeo, con un voto a larghissima maggioranza (439 favorevoli, 157 contrari e 80 astenuti), ha approvato una risoluzione molto severa nei loro confronti, invitandole a ripristinare la libertà di circolazione delle persone.
Il testo votato a Strasburgo rappresenta la prima Relazione annuale sull'attuazione del trattato che prende il nome della cittadina lussemburghese dove è stato firmato. Il relatore, il popolare portoghese Carlos Coelho, sottolinea che gli Stati membri «devono rispettare tutte le norme, non solo quelle che vogliono». Anche perché il danno prodotto è molto rilevante: ogni giorno circa un milione e 700mila europei varcano una frontiera per ragioni di lavoro e, nei due anni trascorsi, si stima già una perdita economica tra i 25 e i 50 miliardi di euro, mentre se i controlli venissero reintrodotti in tutti i Paesi, il costo nell'arco di un decennio andrebbe da un minimo di 100 fino a 230 miliardi. Senza contare i 500 milioni già spesi da alcuni governi per innalzare nuove opere di divisione e barriere per una lunghezza di 1200 chilometri (in questo caso si distingue tra gli altri l'Ungheria di Viktor Orbàn).
Non basta insomma denunciare e contrastare i populisti che accusano l'Europa di ogni nefandezza e che vorrebbero smantellarla. Né ci si può limitare alle prediche verso i Paesi che non osservano l'ortodossia finanziaria e le ferree regole monetarie o di bilancio. La libertà di muoversi da un punto all'altro del Continente non è certo meno importante del rapporto deficit/Pil. E ha tutte le ragioni Coelho quando avverte che «se Schengen muore, l'Europa dei cittadini che abbiamo oggi svanirà». Peccato che questo monito sia rimasto sepolto, nei giorni scorsi, dalle polemiche sul governo italiano e sui mercati in fibrillazione. I pericoli per l'unità dei "27" arrivano anche dai silenzi complici e dalla disattenzione.
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