Confortato dall'esortazione di Mattarella a esercitare «il diritto e il dovere di svolgere il ruolo che ci spetta in Europa», più che farsi "ricompensare" da Bruxelles, come aveva scioccamente dichiarato il commissario tedesco uscente Günther Oettinger, Giuseppe Conte deve armarsi ora di audacia, fantasia e memoria storica. E non tanto per battere i pugni sui tavoli comunitari, in cerca di concessioni sui conti pubblici o sulla redistribuzione dei migranti (obiettivi pure necessari), ma per battere in breccia il rischio di una nuova stagione di europeismo a bassa intensità, di un ritorno al piccolo cabotaggio, sintomo di rassegnazione al declino.
Le dichiarazioni d'intenti in tal senso non mancano, né da parte italiana né da parte della nuova leader dell'esecutivo Ue, Ursula Von der Leyen. Quest'ultima proprio oggi presenta ufficialmente la sua squadra di commissari, fra i quali figura per l'Italia l'ex presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. Incontrandolo a Bruxelles venerdì scorso «in un clima di grande amicizia», la presidente gli ha confermato la volontà di imprimere nuovo slancio per costruire il futuro dell'Unione. Mentre il capo del governo italiano, nel discorso di ieri alla Camera, infine libero dal "freno a mano" imposto da sovranisti ed euroscettici, ha parlato di un nuovo Patto di stabilità e ipotizzato una grande Conferenza sul futuro della Comunità.
In ballo, in effetti, c'è molto più di un riequilibrio dei poteri interni e di un riassetto delle politiche nei vari settori di competenza della Ue. Clima, lavoro, giovani, immigrazione a regole democratiche sono traguardi tutti molto importanti. Ma serve di più. C'è bisogno di una nuova e più ampia "visione" di che cosa l'Europa vuole essere e di dove principalmente vuole agire, di quale contributo intende offrire alla comunità internazionale nei prossimi decenni, per il bene dei suoi popoli e di quelli degli altri continenti, all'insegna dei valori che ne hanno promosso la nascita e lo sviluppo.
Per questo Giuseppe Conte deve mostrare audacia e fantasia, rovesciando il cliché di un'Italia "grande malata" cronica dell'Unione, per offrire un possente contributo all'Europa di domani, idee per una svolta culturale e geopolitica, in vista del lavoro comune. In questo senso, potrebbe attingere al "modello Bari", ossia all'ormai prossimo incontro di febbraio promosso dalla Conferenza episcopale italiana, d'intesa con la Santa Sede, tra tutte le Chiese dell'aerea mediterranea: un confronto all'insegna del dialogo e della collaborazione per il bene comune, che riapra i canali di comunicazione tra Nord e Sud. Perché è sulla sua frontiera meridionale, dal Medio Oriente ai Paesi del Maghreb e di qui
verso i Paesi africani sottostanti, che l'Europa può ancora giocare un ruolo decisivo nel mondo (e anche se questo Conte ha speso ieri alcune prime promettenti parole).
Quanto alla memoria, un pugliese "doc" come il nostro presidente del Consiglio non faticherà a rintracciare in questo approccio precedenti politici illustri. A parte l'ispirazione "lapiriana" (che da ex frequentatore di Villa Nazareth non disdegnerà), Conte troverà facilmente addentellati con il "modello Bari" nella strategia euro-mediterranea del suo conterraneo Aldo Moro, perseguita già negli anni '60. Giusto 50 anni fa, il 24 settembre 1969, parlando da ministro degli Esteri al Senato, lo statista di Maglie ricordava che «l'Italia, per la sua qualità di Paese interamente mediterraneo», può interpretare al meglio le "esigenze degli stati rivieraschi", svolgendo, «non solo nel proprio interesse, una politica animata da rispetto, spirito di collaborazione e vasta apertura verso tutti i Paesi». Una via oggi più attuale che mai.
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