«Se davanti a te vedi tutto grigio, sposta l'elefante...». L'ho letto su un muro, scritto da qualcuno per regalare un sorriso gratis. Scritto, non postato, taggato, inviato. Meraviglia archeologica. Perché mentre consumiamo i pollici sulla tastiera del telefonino, la penna è un oggetto d'antiquariato che i nostri figli faticano a maneggiare. Non si scrive più, o quasi, se non attraverso gli strumenti elettronici: se mandi un SMS sei già vecchio, le e-mail sono le epigrafi dei nostri giorni: parole sincopate per fermare il tempo, che si perdono nell'etere. E non fermano un bel niente. Eppure sui muri qualcuno scrive ancora. Con disperazione (“Vorrei del vino, te e le conseguenze”), autoironia (“Dell'amore ho solo le maniglie”), inquietudine pura (“C'è vita dopo Marzullo?”). Basta digitare una ricerca in rete sui graffiti contemporanei per trovare decine di foto con scritte strepitose. Le stesse nelle quali ti puoi imbattere dietro un angolo, prima che la giustificata pennellata di vernice del proprietario del muro la seppellisca per sempre agli occhi del mondo. Ma oggi, come ottantamila anni fa nelle grotte di Neanderthal, l'uomo ha bisogno di un'incisione manuale per esprimersi. Arte o imbrattamento, il dibattito continua ma prima di assolvere o condannare, possiamo provare a chiederci cosa dicono le scritte del 2019?
Inutile negarlo: l'insulto prevale, l'offesa dilaga, la volgarità si spreca. La politica però ha stancato anche sui muri: pochi perdono tempo a rivangarla, anche se le eccezioni (“Gasparri chi legge”; “Ridateci Fonzie e tenetevi Renzi”) valgono le citazioni che qualcuno ha pure raccolto in libri fotografici che resisteranno a qualunque legislatura. Le scritte rivoluzionarie o anarchiche sono state le vere voci di un'epoca di passioni ormai superate: tutto è passato sui muri, populismo e dittatura, impegno e riflusso. Oggi è rimasto il reflusso, gastrico, di chi beve per dimenticare. “L'alcol fa male, ma io lo perdono”; “Rosso di sera, prosecco si spera”; “Ogni donna merita un uomo che la guardi come se fosse l'ultima birra rimasta in frigo”; “In vino veritas, in grappa figuriamocis…”. Il tasso etilico dei Leopardi contemporanei resta mediamente alto, segno che l'intuizione geniale riesce meglio con il gomito alzato. Con la disillusione e il vandalismo, le scritte hanno cambiato tono: troppi tag, molti scarabocchi da vomito, ghirigori comprensibili solo a chi li inventa di notte, nascosto come un ratto. L'altra faccia è quella del colore, il murales che apre la luce. O l'appello in stampatello di chi ancora ha la l'ingenuità tenera di credere di affidare alla pittura il suo messaggio in bottiglia. Ma mentre la massa tecnologica polpastrella sul vuoto elettronico della comunicazione, fissare alla parete i pensieri non è forse un atto eroico?
Più vita, più amore, molta più ironia. Il presente è spesso un bel quadro. Su un vecchio telefono a gettoni nastrato con un cartello che avvisa che “questa cabina telefonica sarà rimossa il 20 maggio” (ma ovviamente è ancora lì), qualcuno ha scritto a matita: “No, dai. E Superman adesso dove va a cambiarsi?”. Un amante senza firma ha promesso: “Ti darò tutto quello che nei libri hai sempre sottolineato”. Un altro, consapevole, ha ammesso: “Sopportami anche se sono un danno...”. Sporcare un muro non è lecito, certo. Ma almeno c'è cuore. Storie che intuiamo soltanto: (“Quando si chiude una porta, si può aprire di nuovo, perché è così che funzionano le porte”). Voglia di sorridere: (“Ma i figli dei vegani li porta la cicoria?”). Oppure: “Mi sono messo dalla parte del torto perchè avevo capito torta...”. E ha ragione colui che ha vergato: “Non ci sono più le mezze emozioni”, o quello che dispensa consigli pratici: “Se non trovi il vero amore da nessuna parte, prova dai cinesi”. Fino allo strepitoso, struggente: “Mi manco moltissimo”.
Ci vorrebbe, ma non c'è, un progetto per salvare la memoria collettiva attraverso le scritte che, seppure un po' sbiadite, si leggono ancora sui muri del nostro tempo. Uno strumento per spiegare a quelli che verranno la storia recente di chi siamo. O vorremmo ancora essere.
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