Quante volte ci sentiamo dire: «Stai combattendo una battaglia persa»? In genere il commento ha un tono di commiserazione. Il sottotesto recita così: «Poveraccio, quanto sei ingenuo, quanto sei perdente, quanto sei uno sciocco romanticone, quanto poco sei realista. Quanto tempo stai sprecando e per che cosa? Per una battaglia persa». Sulle intenzioni di chi ci gela, anche se il sorrisino di superiorità la dice lunga, è meglio non esprimere giudizi. Ci hanno insegnato che innanzitutto bisogna fare autocritica. E noi la facciamo, anche se a farla dovrebbe essere innanzitutto chi ci fredda con quell'affermazione perentoria che sancisce la nostra disfatta: «Stai combattendo una battaglia persa (sottinteso: povero idiota)».
Quali sarebbero queste battaglie perse all'alba del terzo millennio? Cominciamo dalle piccole cose: la battaglia per l'educazione. Alcuni esempi davvero minuscoli di battaglie quotidiane, se non perse in partenza, di sicuro ardue perfino l'agente Ethan Hunt di “Mission: impossible”: invitare gli automobilisti a mettere la freccia quando svoltano e a non appiccicarsi al nostro didietro quando siamo in coda e andiamo alla velocità massima consentita; correggere la miriade di italiani che sui social scrivono quì, quà, qual'è, roccie e doccie, sbagliano condizionali e congiuntivi, seminano a caso le virgole e se glielo fai notare s'infuriano, dandoti del “professorino chi ti credi di essere eh?”; far abbassare il volume a chi strilla al telefonino o nel weekend allieta il vicinato con cacofonici suoni spaccatimpani che loro considerano “musica”; far coprire con la mascherina anche il naso; e inezie similari.
All'estremo opposto, gli esempi più nobili e alti di “battaglie perse”: per la pace, contro la miseria e la fame. Immediatamente ci danno del “pacifista” e del “terzomondista” (ieri complimenti, oggi insulti). Sono battaglie perse. O almeno battaglie che non vinceremo noi, né i nostri figli, né i nostri nipoti... Guerra e miseria ci sono sempre stati e sempre ci saranno, sibilano, quindi armiamoci fino ai denti e accaparriamoci più ricchezze possibili. Tutto assai ragionevole. Ma per fortuna non tutto ciò che è “ragionevole” è sempre “giusto”. E alcune battaglie vanno combattute senza pensare alle possibilità di vittoria, ma per il semplice, banale, nobile motivo che vanno combattute e basta, a prescindere.
Prendiamo Leonida, re di Sparta. Nel 480 a. C. alle Termopili, messi in salvo la gran parte degli alleati, affronta con 300 professionisti spartani e un mezzo migliaio di tosti tespiesi più di 100mila persiani. È una battaglia persa, ma la combatte ugualmente. Perché? Perché il disonore della fuga sarebbe una sconfitta irreparabile, ma cadendo sul campo l'onore, la speranza e la memoria vincerebbero. Forse spera di far guadagnare tempo ai greci che stanno radunandosi per resistere. Non è irragionevole, Leonida; né lo è chi ad Alamo sa di non poter vincere, ma può dare tempo al generale Houston di organizzare il suo esercito.
No, non sempre una battaglia persa è irragionevole. Si può combattere per fedeltà a una nobile causa, per far vivere una speranza, per non tradire se stessi, gli amici e la fede. Anche se perse, sono battaglie da combattere. Vale sui campi di battaglia, vale nelle discussioni sui social network, vale in Parlamento, vale ovunque: dai consessi più alti a quelli più minuscoli. E se sentiremo la solita voce sprezzante: «Stai combattendo una battaglia persa», sarà l'unico caso in cui saremo autorizzati a rispondere: «E chi se ne frega» (chi ha un caratteraccio e non disdegna le parolacce, potrà replicare come Cambronne a Waterloo).
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