Quel silenzio di cui abbiamo bisogno per guardare in noi
domenica 6 ottobre 2024
Alle sette di mattina dalla cucina di casa avvertivamo un fruscio gentile dalla porta. Era il Corriere, che il portinaio portava ad ogni condomino. Fresco di stampa, odorava ancora del piombo delle rotative, e nel toccarlo macchiava appena le dita di nero. Mi affascinava, da bambina, che le storie del mondo ci fossero recapitate sotto la porta di casa, insieme alla bottiglia di latte. Mi meravigliava che in un giorno si facesse in tempo a scrivere, dai lontani angoli del pianeta, tutti quegli articoli: e a dettarli a stenografi che velocissimi li battevano sulle tastiere, a Milano. Poi – lo sapevo, perché mio padre per quel giornale scriveva - le pagine venivano composte con i caratteri di piombo, piccoli o grandi, o cubitali, per le notizie molto importanti. Piombo, era per me il profumo del giornale: tossico, ma quanto mi piaceva. Mio padre mi portò nei sotterranei di via Solferino, dove le rotative, enormi, rulli e catene anneriti dagli anni, al mattino erano ferme. Le accendono a mezzanotte, mi venne detto, quando i camion stavano col motore già acceso, fuori, per correre alla stazione. Quei giganti di acciaio immobili, alti quattro o cinque metri, mi sembrarono dinosauri: e quanto avrei dato per vederli, a mezzanotte, con un brontolio lento di animale che si risveglia, mettersi in moto e sfornare copie, a centinaia di migliaia. Una di queste poi, alle sette, garbatamente si infilava in casa mia, con quel minimo fruscio. Questa era l’informazione, per me bambina. La tv non la accendevamo troppo – solo in caso di eventi eccezionali. La radio nemmeno: mia madre amava il silenzio. A fine anni ’70 l’informazione era ai miei occhi non invadente, anzi desiderabile: in tanti Paesi i giornali non esistevano, o erano controllati da dittature. Che privilegio, dunque, quel fruscio al mattino. Se fossi stata molto lontana e tornassi ora in Occidente, sarei sbalordita dalla mutazione subita dall’informazione. Non solo con la tv, che per i ragazzi è già “vecchia”; ma col web, con gli smartphone sempre collegati, con i social cui gli adolescenti stanno incollati. Inutili i rimpianti, il mondo non torna indietro. C’è qualcosa però di cui comincio a soffrire: la sovrabbondanza di informazioni, sempre, ad ogni ora, senza tregua, come una frana che non si arresta mai. Ciò che viene detto “infodemia”, epidemia di informazione. E finché degli inviati coraggiosi raccontano la guerra in Ucraina o in Libano, trovo doveroso ascoltare e vedere. Benché spesso – forse invecchiando si diventa più sensibili – da certe immagini, da certe parole mi venga un dolore vivo, cocente, che non so affrontare, e mi incupisce. Quello che però non reggo è l’informazione futile, il gossip, il fake, le ultime sulla love story di un ministro o di un influencer: questa trama del nulla che ci avvolge come una ragnatela, e ci priva del silenzio. Quel po’ di silenzio di cui abbiamo bisogno, per guardare in noi. L’infodemia, mi accorgo, agisce in me come una malattia. Spegnere? Difficile. Questo è ancora il mio lavoro. “Spegnere” poi, e chiudere gli occhi alle guerre, alle carestie? Non si può. Eppure credo ci sia un limite alla quantità d’ informazione, e di sofferenza, che un uomo può reggere. Fino a ottant’anni anni fa, ben poco sapevamo di ciò che accadeva oltre ai confini dell’Italia, o magari di un piccolo paese. Siamo in grado di affrontare la mole di notizie e sciagure, l’overdose mediatica che il tempo del web ci proietta addosso? Non ho risposte, è solo una domanda quella che mi faccio. E quanto a quel dolore che ci viene raccontato, e che non so più sopportare? Se rinascessi, forse, andrei in una Ong. Anche se oggi, davanti alla tirannia e insieme all’impotenza dell’informazione, ammetto che capisco davvero il silenzioso, misconosciuto lavoro delle clausure. © riproduzione riservata
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