Dunque, Vieri Poggiali, ben noto giornalista economico – a 27 anni, nel 1961, era già vicedirettore del Sole-24 Ore – manager e commentatore televisivo, è anche un appassionato melomane. Lo scopriamo dal simpatico volume Nonno, mi racconti l'Opera? (Zecchini Editore, pagine 326, euro 25,00), in cui Poggiali spiega all'amatissima nipotina Sara, ormai ventenne studentessa negli Stati Uniti, i segreti dell'opera lirica. Non è un libro tecnico, è l'amabile racconto di una passione ultradecennale per il melodramma visto non dalla cattedra del critico, ma dalla platea e dai palchi della Scala e di altri teatri internazionali, dove Poggiali ha acquisito “sul campo” una profonda competenza, alimentata da buone letture.Di 43 opere liriche, in ordine alfabetico da Adriana Lecouvreur a Werther, viene narrata la storia, la trama, la contestualizzazione, così come le ha viste e riviste Poggiali, con sapide annotazioni sugli interpreti e aneddoti attinti dal vissuto di chi può ben dire: «Io c'ero!».Poggiali è sempre ben documentato. Per esempio, precisa che l'Infante Carlos ed Elisabetta di Valois, amanti divisi dalla ragion di Stato, in realtà erano poco più che sedicenni, mentre Verdi, nel suo Don Carlo, li fa molto più adulti, con Filippo II, il padre di Carlo, addirittura quasi un vegliardo dal «crin bianco», mentre era soltanto trentaquattrenne, benché già due volte vedovo.Poggiali non si fa illusioni: sa benissimo che l'opera lirica è un genere che praticamente si è estinto con la morte di Puccini nel 1924, e dunque va ormai affrontata con lo spirito e le aspettative con cui ci si accosta ai classici del teatro greco, alla poesia provenzale e a Shakespeare. E proprio perché «classici», quei capolavori parlano a noi oggi in virtù del loro immortale linguaggio, senza bisogno di stravolgenti «aggiornamenti». Scrive Poggiali: «Da quando la grande Maria Callas negli anni '50 e '60 del secolo scorso ha insegnato a tutti come si possa e anzi si debba cantare recitando, il modo di mettere in scena le opere ha compiuto progressi da gigante. Ma – incalza – come nella favola dell'apprenti sorcier, gli epigoni (a livello di registi) di quella splendida e rivelatrice rivoluzione teatrale callasiana – imposta di fatto da una soprano capace di essere anche splendida attrice recitante – sono andati troppo oltre, sino a degenerare nella pretesa di divenire essi i genitori, i reinventori e i rielaboratori del teatro musicale». Da qui l'Appendice dedicata alla «Galleria degli orrori», dove vengono sacrosantamente deplorati gli indignanti allestimenti di una Norma con i guerrieri armati di mitra, di una recente Traviata (alla Scala!) in cui «Alfredo, per scaricare il dispetto d'essere stato mollato, prepara di fronte al proprio predicatorio padre un minestrone di verdure», di un Tannhäuser (a Beyreuth!) ambientato in un'officina del gas.Tra i personalissimi ricordi, l'esordio di una sconosciuta e ancora corpulenta Maria Meneghini Callas che nel 1950 sostituiva la titolare in un'Aida scaligera. La madre di Poggiali, cioè la bisnonna di Sara, «che si muoveva alla Scala come a casa propria», volle conoscerla e si recò con il nipote in camerino. «In breve: si divenne amici, ci si vide poi spesso anche a Verona (dove la Callas ancora abitava) e naturalmente a Milano, venne anche un paio di volte a colazione a casa nostra. E tuttora, a tanti anni dalla sua scomparsa, mi ritengo un nostalgico e inguaribile vedovo Callas, come lo sono tuttora molti appassionati di quella grandiosa, inimitabile interprete, cantante e attrice». Che invidia! Che invidia! Anch'io sono un vedovo Callas: possiedo i 70 cd della sua opera omnia discografica, e tutti i pur pochi filmati che la riguardano. Ma l'ho incontrata di persona solo una volta, e di sfuggita.
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