Un bambino porta in spalla un enorme orologio, di quelli da taschino, ma di grande formato. Sembra, lui così giovane con tutto l’avvenire davanti, il piccolo custode del tempo. La sua immagine è riflessa su una pozzanghera. Il tic tac dell’orologio scandisce il ritmo di un’epoca e di una comunità che in quello scatto poi si riconoscerà. Una fotografia, come una metafora. Che Piergiorgio Branzi coglieva in un vicolo di Comacchio nel 1954. L’inaspettata tappa di una sola giornata nella “piccola Venezia” della provincia di Ferrara, nel corso di un viaggio non certo facile - «viaggiare è ancora un azzardo» - che dalla Romagna l’avrebbe portato verso gli Appennini, offre la possibilità a Branzi di incontrare una «città in miniatura disegnata da una sola mano». «Com’è singolare questo spicchio di terra salmastra, com’è intrigante la Comacchio che sono venuto a conoscere. Mi sono regalato un momento di grazia!». Branzi veloce di penna (è stato giornalista Rai) e col colpo d’occhio del fotoreporter, in una terra piatta, fra canali assolati e bimbi vocianti incontra un orologio. E quel bambino che lo porta appeso alla spalla. Lo “ferma” sul bordo di quello specchio d’acqua e lo trasforma in un simbolo.
Il bambino con l'orologio, Comacchio, 1954 - Piergiorgio Branzi
Ora, quasi settant’anni dopo, la fotografia del “ragazzo con l'orologio” torna a Comacchio nella mostra di Branzi, intitolata proprio Un momento di grazia, nelle sale della Galleria d’Arte di Palazzo Bellini, fruibile fino al 24 ottobre. Un vero e proprio evento per la comunità delle "valli" realizzato dal Comune di Comacchio – Assessorato alla Cultura, e curato di Nicola Nottoli, con la collaborazione della Fondazione Forma per la Fotografia e della casa editrice Contrasto che ha pubblicato il catalogo con le cinquanta immagini esposte, la "visione" di Alessandra Mauro e il racconto dello stesso Branzi che ripercorre le ore di quella lontana giornata, in un tempo che appare quasi sospeso: «L’Italia, uscita dal conflitto da meno di un decennio, era un paese povero, nel migliore dei casi di dignitosa indigenza. Cercai di affrontarlo con uno sguardo di empatia, sperando di dare alle immagini un contenuto di messaggio sociale». Branzi narra cosa c’è dietro quello scatto iconico: «Mi sorpassa un ragazzotto con sulle spalle un enorme orologio. Grande e rotondo, come quelli che si usava portare nella tasca della giacca appeso a una robusta catenella, un barbazzale d’oro per i benestanti. Funziona, sento il tic-tac, ma le lancette sono irrequiete, saltellano irregolarmente ad ogni sobbalzo. Convinco il ragazzo a fermarsi e farsi fotografare. C’è un’ampia pozzanghera sulla stradina, al centro di una quinta di muri corrosi. Il quadrante si riflette nello specchio d’ acqua, si sdoppia, mi offre la chiave di lettura che cercavo di questo intrigante lembo di terra, dove il tempo sembra essersi fermato, sospeso in un silenzio d’acquario, una muta inquietudine metafisica. Altri ragazzi non si tirano indietro, vogliono farsi fotografare. Cerco altre soluzioni formali, ma avverto che i primi scatti hanno già dato la risposta che cercavo. È il tardo pomeriggio e la luce sta calando velocemente. Sopraggiunge un adulto che preleva il bizzarro orologio fuori misura, che segna il tempo con emblematica indefinitezza, lo porta alla sua naturale destinazione: insegna pubblicitaria di un orologiaio».
“Un momento di grazia” per il fotografo di Signa, Firenze, classe 1928, che inizia la sua lunga strada nel mondo della fotografia, del racconto e del giornalismo proprio in quegli anni. Tutto comincia nel 1952, con la visita alla mostra di Henri Cartier-Bresson a Palazzo Strozzi a Firenze: acquista una Condor 35 mm, invia le prime foto alla rivista Ferrania ed espone alla Galleria di Arte Contemporanea. Sarà Vincenzo Balocchi a introdurlo al mondo della fotografia e ad alcuni autori del gruppo La Bussola, nata per promuovere la fotografia come arte dal punto di vista sia professionale che documentario. Conosce Mario Giacomelli, con cui stabilisce una grande amicizia e un sodalizio artistico. Ed è proprio con la foto del “bambino di Scanno” che “il bambino dell’orologio” fa il paio fra le immagini simbolo di un’epoca. Negli anni Cinquanta viaggia nei paesi del Mediterraneo, prima in Italia, in moto, poi in Spagna, in Andalusia, su una Fiat 600 e poi ancora in Grecia nel 1957. Le sue fotografie vengono pubblicate in Italia e all’estero su tantissime riviste. Arriva la collaborazione con Il Mondo di Aldo Pannunzio e viene assunto alla Rai, rallentando la sua produzione fotografica. Nel 1962 su incarico di Enzo Biagi, direttore del Telegiornale, si trasferisce a Mosca e diventa il primo corrispondente occidentale nella Russia di oltrecortina. Nel 1966 è nominato corrispondente dalla Francia e si sposta a Parigi. Rientra a Roma nel 1969 per assumere l’incarico di commentatore al telegiornale e inviato speciale, mentre prova a dedicarsi alla pittura e all’incisione. Gli impegni professionali lo spingono ad allontanarsi da queste attività, ma trascorre comunque un quarto di secolo tra mostre, pubblicazioni e riconoscimenti. Decide poi di impegnarsi su un nuovo progetto visivo dedicato a Parigi: approda al digitale e alla stampa digitale, grazie all’amico Nino Migliori. Nel 1997 gli viene conferito il titolo di Fotografo Fiaf dell’anno. Il suo libro più recente è Il giro dell’occhio (Contrasto, 2015) dove raccoglie le immagini di sessant’anni di scatti. Il tempo che passa, segnato per una vita da quell’orologio di Comacchio. «Di recente ho casualmente saputo il nome del ragazzo che attraversava Comacchio con un grosso orologio sulla spalla: si chiama R.B., ha una dozzina di anni meno di me, e sta bene. Ne ero certo, sento che lo è ancora oggi».
Una foto e 913 parole.