Sigmund Freud scrisse di Dostoevskij che non gli era riuscito di essere un “maestro dell’umanità”. Nello stesso testo sul grande autore russo, Freud argomentò quanto tuttavia lo stesso Dostoevskij possedesse grande carica umana e affettiva: un uomo dal cuore pieno d’amore – ma un amore, così secondo il fondatore della psicoanalisi, mal convogliato, male incanalato, in un certo senso persino impresso in modo imperfetto sui suoi personaggi. Per un altro sommo autore della letteratura russa, Lev Tolstoj (succede spesso che i due scrittori vengano raffrontati) la questione è diversa. Può darsi che Freud avrebbe definito Tolstoj “maestro dell’umanità”, per come straordinario è stato il grado di altruismo e spessore morale che Tolstoj ha saputo infondere in alcuni suoi personaggi. Due di loro risultano esemplari: Pierre Bezuchov in Guerra e pace, Levin in Anna Karenina. Entrambi, figure dall’animo nobile, magnanime e generose nel cuore, tanto da essere di sostegno per gli altri; e tutti e due fanno di quel sostegno un tema su cui riflettere, una forma di missione in quanto asse portante dei loro comportamenti, del loro agire. Complessa la questione – quanto di sé stesso uno scrittore proietta sui suoi personaggi. Tutt’altro che scontato quel che lega l’indole di un autore ai tipi psicologici da lui (lei) inventati, foggiati o invece ripresi dalla realtà per poi essere trasfigurati nell’invenzione. Un nesso molte volte inversamente anziché direttamente proporzionale, nel senso che l’autore/autrice dà corpo e voce a figure tutte diverse da come lui (lei) è. A questa asimmetria, del tutto funzionale al creare, non si pensa abbastanza. Viviamo tempi di molta, troppa letteratura autobiografica, tempi di romanzi e racconti affollati di personaggi che i lettori amano immaginare come simili, quasi identici e comunque intimamente legati agli autori che ne sono gli inventori. Domanda tra le più frequenti che uno scrittore si sente rivolgere pertiene il grado di autobiografia dei libri che scrive. Ma le cose non sono schematiche, mai così semplici né tanto meccaniche. L’immedesimazione con i personaggi è tutt’altra cosa dall’autobiografia. Di certo Flaubert quando diceva (se lo diceva): «Madame Bovary c’est moi», “Madame Bovary sono io”, non intendeva affermare di avere trasposto nel personaggio di Emma Bovary sé stesso. Alludeva piuttosto al principio chiave di ogni letteratura d’invenzione, e non dissimile da quello che presiede alla professione di attore: la capacità di calarsi in figure che sono esterne, estranee, fuori da sé. Calarsi, immedesimarsi, ovvero mettersi nei panni: provare empatia. Empatia è tutt’altra cosa da autobiografia. È aderire al prossimo, sforzarsi di vedere il mondo con i suoi occhi. Fuor di dubbio che un bravo scrittore debba saper provare massima empatia. L’autobiografia può essere per lui/lei occasionale imperativo intimo, ma preliminare a tutto è la capacità di ascoltare, calarsi, immedesimarsi, e di lì, da quel finissimo e necessario sentire “fuori di sé”, inventare. Sull’auspicio di maggiore empatia e minore autobiografia, anche in letteratura proprio come nel mondo, questa rubrica oggi si conclude, ringraziando chi l’ha letta e seguita.
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