Nel profluvio di opinioni di questi giorni sarebbe interessante aprire un dibattito per identificare le differenze tra la multietnicità delle nostre squadre nazionali di pallavolo femminile o di atletica leggera di cui tanto si è parlato (e tanto si parlerà ai prossimi Giochi Olimpici di Parigi) e la situazione del nostro calcio. Guardare le nazionali di Francia, Spagna, Germania, Inghilterra, Portogallo o Belgio restituisce l’immagine di un mondo diverso: giusto per fare una -piccolissima- carrellata: Mike Maignan, nato a Cayenne, capitale della Guyana francese, Kylian Mbappe, parigino figlio di una famiglia di sportivi camerunense (da parte paterna) e algerina (lato materno), la stella nascente della Spagna, Nico Williams, nato a Pamplona da genitori ghanesi, ma diventato bandiera dell’Athletic Bilbao, club ultra-identitario basco! O ancora il solidissimo difensore tedesco Jonathan Tah, di origini ivoriane, Bukayo Saka, londinese di genitori nigeriani (che noi italiani ricordiamo per il rigore parato da Donnarumma a Wembley nel 2021), Leão campione ben noto ai tifosi del Milan, nato nel distretto di Setúbal da padre dell’Angola e madre di São Tomé e Príncipe, il trio di attacco belga, Jeremy Doku, Romelu Lukaku e Lois Openda le cui radici paterne o materne, arrivano da Ghana, Zaire, Congo e Marocco e certamente rappresentano un’immagine di Belgio che non corrisponde a quella disegnata da Hergé con il suo Tin Tin. Quelli citati rappresentano forse un quinto del totale dei calciatori di seconda generazione che compongono le loro squadre. Perché, dunque, in Europa questa multietnicità nel calcio è la norma, mentre in Italia lo è (o lo è diventata) soltanto in quegli sport che vengono ingiustamente definiti “minori”? Verrebbe, in questo caso specifico, da escludere un tema: quello dello ius soli, tanto più quello della sua eventuale declinazione sportiva. Le regole sono uguali e, anzi, arrivando il momento di massima prestazione calcistica più avanti nella carriera, teoricamente gli atleti dell’atletica leggera sono quelli più penalizzati dall’impossibilità di gareggiare a livello internazionale fino ai diciotto anni. Viene allora tristemente il dubbio che quello del calcio italiano sia un problema culturale, frutto di un sistema dirigenziale e tecnico conservatore, talvolta reazionario. Il problema, ma sarebbe bello dibatterne, credo sia legato alle minori opportunità che, in assoluto, i nostri ragazzi giovani hanno e che non permette loro di sfondare il “tetto di cristallo” delle prime squadre professionistiche, una specie di profezia che si auto-adempie nel credere che ragazzi giovani (e, peggio, con la pelle nera) non siano pronti (o, peggio, intelligenti a sufficienza) per sostenere tutte le infrastrutture tattiche del nostro calcio. Sì, perché fra questi giovani italiani che alle prime squadre non ci arrivano, a tutti gli effetti ci sono anche i tantissimi ragazzi di seconda generazione. Nei Paesi citati, senza addentrarci nel loro passato colonialista, il tema è stato culturalmente affrontato vent’anni anni fa. Già, viene alla mente lo spot, ideato e voluto da Oliver Bierhoff, ai tempi manager della nazionale tedesca, che girò su tutte le televisioni in Germania e la cui sceneggiatura, a grandi linee, era questa: alcune famiglie provenienti da diverse parti del mondo si ritrovano nel giardino di una villa, mangiano e discutono secondo le abitudini dei Paesi di provenienza, però parlando in tedesco. A un certo punto la padrona di casa urla: «Venite, ci sono i nostri ragazzi in tv!». Cambio di scena, si sente l'inno e si vedono i nazionali schierati: ecco la Germania multietnica. Era il 2008.
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