Quelli che sanno tutto di Internet e dei social, magari sbufferanno. Ma noi che siamo qui per capire e per spiegare, ci proviamo lo stesso ad affrontare il tema degli «influencer» digitali.
Partiamo dall'inizio. Chi sono? Diciamo subito che sono sempre esistiti, anche prima che la parola che li identifica diventasse così di moda. Sono le persone che hanno il potere di influenzare gli altri. Di creare una moda, di creare consenso o dissenso attorno a un tema, un'idea o un oggetto. Nel marketing sono persone che, spesso non direttamente, convincono altri ad acquistare un oggetto (spesso per sentirsi «alla moda» come chi lo ostenta).
Loro, probabilmente, non se ne ricordano più, ma i primi «influencer» italiani sono stati i tassisti. Correvano gli anni Sessanta e la Fiat propose loro di acquistare la nuova 600 con un fortissimo sconto. L'idea che stava alla base di quell'operazione era semplice: dotando i tassisti di una Fiat 600 l'avrebbero vista ogni giorno in giro per le città centinaia di migliaia di persone, molte delle quali l'avrebbero anche "provata" come passeggeri. Una pubblicità perfetta. E così fu. La Fiat 600 divenne un successo. E da allora molte case automobilistiche offrono ai tassisti i loro ultimi modelli con un forte sconto.
Certo, allora come oggi, c'erano anche i vip e le star. Ma nessuno avrebbe creduto ad una stella del cinema o della musica alla guida di una Fiat 600. Il mondo del digitale in questi anni ha fatto nascere un sacco di persone che, vantando un numero importante di follower e di fan, si fa pagare per scrivere su Twitter e Facebook o mettere una foto su Instragram o Snapchat di un evento o di un oggetto.
In America ci sono persone come Lilly Singh, Brian Kelly, Mark Fischbach che hanno milioni e milioni di fan e sono state celebrate anche da riviste di business come Forbes. Noi abbiamo Chiara Ferragni, Mariano Di Vaio e Gianluca Vacchi. Se aprite un profilo social di questi ultimi, potreste restare a bocca aperta. È una continua esibizione di corpi, oggetti di abbigliamento e gadget al solo fine di vendervi qualcosa senza dirlo direttamente. Si mostra un polso con un orologio, un tavolo da colazione con una scatola di cereali, ci si fa un selfie (un autoscatto) con un paio di occhiali. Oppure si pubblicano la foto o un tweet di quel party «carinissimo» dove "casualmente" non manca mai la scritta dello sponsor. È una fiera così ingannevole che Instagram ha deciso di correre ai ripari e di mettere un freno alle foto pubblicitarie troppo smaccate e sul tavolo dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato ci sono nove casi di influencer denunciati dall'Unione Consumatori per pubblicità occulta.
Intanto, come ai tempi della Fiat 600, gli esperti hanno scoperto che per certi oggetti da vendere servono un certo tipo di influencer. Non importa che sia famoso, ma che sia considerato influente dalla nicchia alla quale si rivolge.
In questo senso (quasi) chiunque di noi, può diventare un «influencer». Anzi, sono convinto che sempre di più le aziende cercheranno non tanto i Vip famosi sul digitale ma «micro influencer», con meno fan ma molta più credibilità. Chi avrà credibilità, avrà successo. Verso un pubblico meno numeroso ma più scelto. E per questo più efficace. Vale per gli influencer come per i mass media.
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