Viaggiare per monasteri, oggi di moda, si direbbe una contraddizione di termini: il movimento irrequieto e la fermezza contemplativa. Ne è una prova che la domanda, «Hai trovato il monastero giusto?», è destinata a rimanere senza risposta. Occorre prima partire da noi stessi, dal nostro io asfittico e asfissiante, e metterlo un po' a tacere per recuperare respiro interiore, con ricadute non soltanto personali, ma sociali, forse persino politiche. Deve averlo fatto Giorgio Boatti quando si è incamminato per il suo viaggio Sulle strade del silenzio, verso monasteri italiani - una ventina, quasi tutti benedettini - tra paesaggi intatti che mettono nostalgia: non per quello che era e non è più, ma per quello che avrebbe potuto essere e non è stato. L'esperienza che Boatti ha cercato e vissuto è scandita da pasti dai sapori spogli, consumati senza parole, gli occhi posati a interrogare piccoli gesti; da freddo e sonni interrotti, da corte passeggiate nella campagna che possono diventare infiniti itinerari indietro e avanti nel tempo, perché misura del tempo è solo la vita. Il sospetto nutrito alla partenza alla fine appare confermato: questi luoghi, che consentono ancora modalità e ritmi più naturali di quelli a cui siamo assuefatti, hanno luci nascoste in grado di offrire qualche orientamento.
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