«Mai più». Fuori dal Parlamento, in tante scandivano la frase. Molto più di uno slogan. Un impegno preso con la “piccola Amina”. Aveva 16 anni, Amina Filali quando ingerì una boccetta di veleno. Tutto d'un fiato. Era il 10 marzo 2012. Ventidue mesi dopo, gli attivisti locali, sostenuti da Amnesty International, hanno potuto mantenere la promessa fatta in quei giorni di marzo, quando il Marocco e il mondo “scoprirono” – o meglio non poterono più negare – l'orrore dei matrimoni forzati per legge tra gli stupratori e le proprie vittime. Era stato quell'incubo – durato sette mesi – a portare Amina a darsi la morte. Il simbolo di molte, troppe vite spezzate da una legge assurda. L'articolo 475 del codice penale infliggeva da 1 a 5 anni di carcere a chi violentava una minore. A meno che non decidesse di sposarla. Tra prigione e matrimonio, la scelta –almeno quella maschile – era quasi scontata. La ragazzina non aveva voce in capitolo. Per lei decidevano i genitori. E quando erano poveri, disperati e di zone remote – in cui bambina abusata difficilmente troverà un altro marito – questi ultimi optavano per le nozze. Ora tutto ciò non sarà più possibile. Dopo una campagna di sensibilizzazione nazionale e internazionale, nella notte tra mercoledì e ieri, i rappresentanti di tutti i partiti politici – islamisti inclusi – hanno deciso di abrogare l'articolo 475. Nessuna ragazzina sarà più costretta a convivere con il suo violentatore.
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