sabato 7 novembre 2020
La Sala Stampa vaticana, al di là dell'austerità del luogo, è sempre stata un posto in cui i giornalisti cercavano di ammazzare il tempo in ogni modo possibile, specie nell'era pre-Internet, quando tutto viaggiava su carta e, in quel grande salone, si passavano ore e ore tutti i giorni in attesa di notizie che non sempre arrivavano. Un po' come nella Fortezza Sebastiani, ma con un sacco di vivacità in più. Ognuno si inventava qualcosa, come per esempio il collega di un'agenzia di stampa che, non appena da qualche parte del mondo arrivava la notizia di una qualche calamità, o tragedia, batteva immediatamente e inesorabilmente lo stesso dispaccio: «Appresa la notizia il Santo Padre si è raccolto in preghiera», certo che di lì a poco sarebbe quasi sicuramente arrivato il comunicato ufficiale; e nel caso non fosse arrivato «vuoi che – aggiungeva quel collega – qualcuno smentisca che il Papa prega?». Un pizzico di cinismo professionale che, probabilmente, non faceva male a nessuno. Ma che un giorno suscitò la reazione di un altro collega, da poco accreditato in Sala Stampa, che fece presente che in quel modo si finiva per rendere banale una cosa "alta" come la preghiera, la vicinanza ai sofferenti, la solidarietà. Impossibile dargli torto.
L'episodio mi è tornato in mente qualche giorno fa, leggendo il tweet lanciato da papa Francesco dopo la strage di Nizza: «Sono vicino alla comunità cattolica di Nizza, in lutto per l'attacco che ha seminato morte in un luogo di preghiera e di consolazione. Prego per le vittime, per le loro famiglie e per l'amato popolo francese, perché possa reagire al male con il bene». Una nota "classica", quella che, appunto, ti aspetti in un simile frangente. Tanto più che poco prima dalla Sala Stampa era uscito un comunicato che informava che «il Papa è informato della situazione ed è vicino alla comunità cattolica in lutto. Prega per le vittime e per i loro cari, perché la violenza cessi, perché si torni a guardarsi come fratelli e sorelle e non come nemici, perché l'amato popolo francese possa reagire unito al male con il bene», insieme alla deplorazione di un attentato che «ha seminato morte in un luogo di amore e di consolazione, come la casa del Signore». Ma davvero tutto così scontato? Così banale?
Non proprio. Anzi, per niente. Hannah Arendt, che per il New Yorker seguì nel 1961 a Gerusalemme il processo Eichmann, colpita dal grigiore ottuso, burocratico di quell'uomo scialbo che era stato tra gli ideatori dell'Olocausto, dalla ignorante inconsapevolezza delle conseguenze dei suoi atti, scrisse un saggio intitolato La banalità del male, divenuto in breve tempo un testo paradigmatico di una realtà agghiacciante. Che ci dice che davvero fare il male è quasi una banalità, un processo meramente ripetitivo, tanto più invasivo e contagioso se esercitato da un gruppo che nasconde, confonde, copre. Talmente banale da arrivare a stupire perfino chi lo commette: «Ma io non pensavo... Io non volevo...». Quante volte l'abbiamo sentito, e lo sentiamo? Al contrario, il bene non è mai banale. Condividere, partecipare dei problemi altrui, farsene anche carico, richiede una consapevolezza, una motivazione, una capacità di "sentire" che non è mai automatica, che non può mai essere fortuita, ma sempre fortemente voluta. Il bene ha sempre questa capacità di trasformare le cose, di portarle dall'infimo all'alto, di elevare la miseria, persino la cattiveria, in un "qualcos'altro" infinitamente più capace di incidere nel mondo. E di sconfiggere ogni male.
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